Alcuni scrittori e artisti sono morti senza avere la minima idea di cosa avrebbero rappresentato le loro opere per le generazioni successive, della fama e dell’ammirazione che avrebbero conquistato: pensiamo a Kafka, a Sylvia Plath morta suicida, a Emily Dickinson, a Van Gogh che in vita vendette un solo quadro, a Modigliani che morì in povertà, a Irene Nemirovsky che non sopravvisse ad Auschwitz, a Emily Brontë, portata via dalla tubercolosi dopo aver scritto “Cime tempestose”. Mi hanno sempre incuriosito – di una curiosità malinconica, amara, tutta umana – soprattutto gli scrittori morti suicidi, coloro che hanno deciso di togliersi la vita praticamente da sconosciuti e che soltanto dopo sono stati scoperti e amati, in un regalo tardivo del destino, in una gloria a lungo inseguita e ottenuta quando ormai non serviva più, almeno a loro.
Tra questi Guido Morselli, dimenticato per decenni e oggi considerato un autore di culto, un classico della letteratura italiana contemporanea. In vita riesce a pubblicare soltanto due libri (“Proust o del sentimento” e “Realismo e fantasia”), mentre tutti i suoi romanzi, costantemente rifiutati dagli editori, sono postumi, editi da Adelphi. Uno scrittore eccentrico e misterioso, difficile da raccontare in modo esaustivo in un breve articolo che vuole essere soltanto un omaggio e un ricordo. La famiglia di Guido Morselli si trasferisce a Milano dove il padre è un manager di successo, uno dei più importanti dirigenti della farmaceutica Carlo Erba, che all’inizio del ‘900 fece la storia dell’industrialismo italiano; una famiglia molto benestante, colta, orgogliosa, piuttosto chiusa e distaccata, non portata per slanci e tenerezze. Guido è un bambino quando perde la madre a causa della febbre spagnola, dopo pochi anni muore anche la sorella maggiore: due lutti sconvolgenti, un vuoto feroce e senza scampo che lo perseguita per tutta la vita, unito a una nostalgia amara e struggente per la madre. Quasi tutti i suoi personaggi sono orfani, soli, inquieti, alla costante ricerca di qualcosa che non potranno avere mai; la loro ferita è una cicatrice, il passato non muore mai ma torna e ritorna. Il padre di Guido, severo e distaccato, vorrebbe per il figlio un lavoro sicuro in una delle sue aziende, ma lui preferisce un “pezzo di pane e formaggio e la libertà, piuttosto che la ricchezza e la servitù del lavoro”, sente il bisogno di aria, non di chiudersi in un ufficio. Si dedica alla scrittura giornalistica e narrativa con disciplina e passione, e trascorre gran parte della sua vita nella Casina Rosa di Gavirate, sul lago di Varese. Il fratello lo descrive come un uomo chiuso che amava la vita di provincia, i caffè e le trattorie, schivo nei rapporti sociali, non aveva amicizie vere, escluse quelle femminili; voleva mimetizzarsi, era come se si nascondesse in quella casa isolata, con la sola compagnia di un contadino che lo aiutava a coltivare la terra.
Guido Morselli ha una personalità che cattura e affascina, acuto, passionale, un anticonformista, antiborghese, un esteta con un temperamento battagliero, un romantico dalla vita sentimentale altalenante. Riservato e idealista, dignitoso e fiero, così magro e così perennemente inquieto. L’immagine che più lo rappresenta è con una sigaretta in bocca davanti al foglio di carta infilato nella Olivetti, oppure immerso nella lettura come un mistico, o davanti alla cartellina dal titolo “Rapporti con gli Editori” in cui raccoglie la corrispondenza e i rifiuti di un mondo editoriale per lui inaccessibile. “Quando non sarò più un uomo, io mi sparo” ripete più volte negli anni, uno strano ragionamento che il 31 luglio 1973 mette davvero in pratica: è a casa, prepara una cena leggera, fuma la pipa, lascia un biglietto sul tavolo “non ho rancori verso nessuno”, una copia del suo ultimo romanzo “Dissipatio H. G.”, l’ennesimo rifiuto editoriale, è nella cassetta della posta. Si siede sulla poltrona a dondolo del giardino, ha un asciugamano intorno al collo e in mano una pistola puntata alla tempia. Lo sparo risuona nel buio della notte ma nessuno nel quartiere ricorda di averlo udito, solo il custode accorre. Pochi mesi prima aveva terminato “Dissipatio H.G.” (Humani Generis), il suo libro più personale, una sorta di confessione che è anche un congedo. Il protagonista, lucido, ironico, ipocondriaco, attirato da un assoluto solipsismo, decide di annegarsi in un laghetto in fondo a una caverna, in montagna. Ma all’ultimo momento cambia idea e torna indietro ma il genere umano, proprio in quel breve intervallo, è scomparso, si è come volatilizzato. Paradossalmente, l’umanità è ora rappresentata dall’unico uomo che era sul punto di suicidarsi. Comincia allora un appassionante monologo, sullo sfondo della totale solitudine e di un silenzio rotto soltanto da qualche verso animale o dal ronzio di macchine che continuano a funzionare. Un monologo che si trasforma in un dialogo con tutti i morti, in cui riaffiorano ricordi, particolari, riflessioni, mentre il protagonista senza nome cerca qualche altro sopravvissuto e le improbabili tracce di un amico dimenticato. L’umanità è stata “angelicata in massa”? O si tratta di una migrazione turistica collettiva? O di una silenziosa apocalisse? L’unico sopravvissuto, lui, è un prescelto o il condannato? C’è qualcosa di disperato e, insieme, di sereno in queste pagine, così piene di grazia, fra le sue più belle. Una fine decisa come conseguenza della frustrazione per il mancato riconoscimento editoriale? O frutto del rimpianto per una vita che avrebbe potuto essere diversa? Difficile dirlo. L’unica certezza è che Guido Morselli definiva la vita come un moto, un moto circolare però, come se uno continuasse a battere i piedi nello stesso punto senza andare da nessuna parte. Per questo è una vita in cui alla fine “tutto è ugualmente inutile”.