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Elio Germano a L’Aquila sul cinema e la vita

Redazione Centrale di Redazione Centrale
7 Maggio 2016
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L’Aquila. Elio Germano, tra i più promettenti attori sulla scena nazionale, premio “Miglior Attore” al Festival di Cannes con “La nostra vita” è stato accolto ieri pomeriggio dagli applausi scroscianti di un pubblico soprattutto fatto da studenti, all’aula magna del Convitto Nazionale D. Cotugno. Moderatore dell’incontro il critico di “Repubblica” Franco Montini. 20160505_175845 Esiste un cinema inteso come comunicazione, spiega Germano, ed un cinema come business. Come tutti i mestieri, anche quello dell’attore rischia di essere inquinato da quelli che egli chiama “rumori”, come la paura di non essere all’altezza, l’ansia per il giudizio altrui, la fame di guadagno. L’unico metodo che egli deve perseguire nella sua carriera è quello di sbarazzarsi di questi fantasmi. “L’attore”, aggiunge, “dovrebbe essere una persona sconosciuta”; troppo spesso infatti la notorietà del singolo offusca la bellezza di un’opera cinematografica. Il cinema è un mestiere collettivo, di cui quest’ultimo è soltanto un ingranaggio. Elio Germano vive di un lavoro che non ha mai considerato tale: da ragazzo era iscritto alla facoltà di Filosofia, e a chi gli chiedeva cosa avrebbe fatto da grande rispondeva: “il designer industriale”. “Ho cominciato a fare spettacoli a teatro dove non venivo pagato, però non potevo farne a meno (…) Poi ho avuto la fortuna che questa passione diventasse un lavoro”. E’ proprio questa passione a spingerlo, prima delle riprese de “Il giovane favoloso”, a studiare uno per uno gli scritti di Giacomo Leopardi, con il sostegno dei massimi studiosi del poe20160505_163639ta di Recanati. Germano poi non esita a trascorrere due mesi in un cantiere per provare cosa significhi essere un operaio edile: egli vive la vita di chi andrà ad impersonare. L’attore infatti rinuncia alla propria unità dissolvendosi nelle emozioni, nell’oblio, nello spazio controllato di un palcoscenico. In una società in cui si cresce “a pane ed individualismo”, riflette, mettersi nei panni degli altri vuol dire non avere più bisogno di leggi che ci regolino. Recitare diviene quanto di più terapeutico ed edificante per l’essere umano. “Siamo tutti potenzialmente assassini, dei mostri, delle persone degradanti e degradate”, risponde così ad una studentessa che chiedeva come fosse possibile impersonare figure di cui non si condividono le azioni e l’ideologia. Se dunque tutti noi abbiamo un lato oscuro, l’arte della recitazione diviene lo strumento più potente per conoscere noi stessi.

Diego Renzi

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