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Dire alla collega:”ho un c…grande così” non è reato. Cassazione assolve 55enne

Redazione Centrale di Redazione Centrale
17 Ottobre 2014
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L’Aquila. Si è avvicinato alla collega nello spogliatoio dell’azienda dove lavorava e le ha detto: “Giuseppì, stasera ho un c…. grande così”. Poi alla povera Giuseppina ha anche assestato una bella pacca sul sedere. La donna ovviamente non l’ha presa bene e ha denunciato il collega sia per la pacca, sia per l’autocelebrazione non richiesta dell’organo sessuale. La Cassazione lo ha condannato per la pacca e assolto per il “c… grande cimages (2)osì”. Secondo i giudici,  non commette reato chi elogia la virile ‘tonicità’ del suo organo sessuale a una collega di lavoro perché questo tipo di ‘esaltazione’ è solo un “apprezzamento” che l’uomo rivolge “a se stesso” ed è quindi privo di “offesa alla dignità altrui”. Per la pacca, invece, l’uomo – Marcello M., aquilano di 55 anni – è stato definitivamente condannato per violenza sessuale a 11 mesi e 10 giorni di reclusione. Da tempo, infatti, la Suprema Corte ha inserito questo abuso tra le violenze sessuali. Nel ricorso alla Suprema Corte, contro la decisione della Corte di Appello de L’Aquila che aveva confermato la condanna dell’uomo a undici mesi e dieci giorni di reclusione per la pacca e altri 20 giorni per l’ingiuria rivolta sempre a Giuseppina R., il legale dell’imputato si è particolarmente impegnato a sostenere l’inoffensività della frase incriminata. Si tratta solo di “una assai grossolana proposta” e il “contenuto evidentemente autoreferenziale dell’espressione esplicita solo un effetto che si sarebbe prodotto nella persona, in questo caso Marcello M., e dunque non è un dileggio o un disprezzo”, ha fatto presente l’avvocato Massimo Carosi. Accogliendo questo punto di vista, i supremi giudici – con la sentenza 43314 della Terza sezione penale, presidente Claudia Squassoni, relatore Gastone Andreazza – hanno stabilito che “pur essendo indubbia la terminologia volgare e ineducata delle specifiche parole ricomprese nella frase contestata”, i giudici della Corte di Appello avrebbero dovuto concludere “stante l’inequivoco riferimento dell’imputato non già alla interlocutrice, bensì a se stesso, per l’assenza di offesa alla dignità altrui e, dunque, per la non integrazione del reato contestato”. In pratica, relativamente al reato di ingiuria, la condanna per Marcello M. è stata annullata senza rinvio “perchè il fatto non sussiste con conseguente eliminazione della pena”.

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