Parliamo del numero dei giorni dell’anno. Essi sono 365. Ma, 366 ogni 4 anni. Sono i cosiddetti anni bisestili. Proprio come questo 2016. Noi sappiamo che l’anno solare è il tempo che impiega la terra per compiere la sua orbita intorno al sole. Cioè, il tempo per ritornare alla stesso punto di partenza. E poiché essa gira anche su se stessa, il periodo di tempo dell’anno solare è formato dall’alternanza di giorno e notte. Perciò un anno intero, lo possiamo misurare, o “contare”, con il numero dei giorni (cioè: quante volte la terra gira su se stessa). Tutto è relativo! Allora possiamo dire che la terra, per percorrere la sua orbita intorno al sole, impiega 365 giorni (cioè 365 giri su se stessa) . Però – ecco l’inghippo – succede che dopo 365 giri che essa fa a guisa di trottola mentre gira intorno al sole, alla fine non arriva esattamente al “punto di partenza”. Ma rimane ancora un pezzettino (l’ultimo tratto di orbita per raggiungere il punto di partenza), equivalente a un po’ meno di sei ore: cioè circa un quarto di giorno. Quindi l’anno solare è “lungo”, o meglio “dura” 365 giorni e “quasi” 6 ore. Fino al tempo di Cesare, di questo spezzone di “quasi” 6 ore nessuno ci faceva caso. E così, a distanza di anni si notava che le stagioni si spostavano, arrivavano sempre prima. I diversi popoli antichi avevano trovato il loro modo per correggere questa discrepanza. I Romani in particolare correggevano questa sfasatura mediante alcuni decreti (estemporanei) emanati dai sacerdoti preposti a questo compito: essi ogni tanto inserivano nell’anno dei mesi intercalari, ridando ordine al susseguirsi delle stagioni. Così probabilmente gli altri popoli. La riforma di Giulio Cesare – che, data l’estensione dell’Imperium Romanorum, coinvolse una vasta area del mondo conosciuto – stabilì, allora, che ogni quattro anni nel mese di febbraio, dopo il 24° giorno (che si chiamava “sextus ante Kalendas martias”, cioè: “sesto giorno prima del 1° marzo”, sestultimo di febbraio) si inserisse un giorno in più (il bis-sextus: cioè il “sestultimo” per la seconda volta). Questo perché dopo quattro orbite intere che la terra compie intorno al sole, la somma dei (quattro) pezzettini – un po’ meno di sei ore – corrisponde quasi alla durata di una giornata. E poiché il 24 febbraio, secondo il modo di chiamare i giorni che avevano i Romani, era detto “sesto giorno [diem sextum] prima delle Calende di marzo”, il secondo “diem sextum” fu detto “bis-sextum”. Da ciò l’aggettivo bisestile che andò a denominare l’anno che conteneva questo giorno aggiunto. Oggi che chiamiamo i giorni diversamente, negli anni bisestili invece di ripetere il 24 febbraio, aggiungiamo la giornata del 29. Però con il provvedimento di Cesare il punto di partenza dell’orbita solare della terra veniva superato (anche se solo di un poco, in quanto il pezzettino che mancava era – come ho detto – meno di sei ore). Perciò restava comunque un inconveniente, per quanto piccolo: alla distanza sarebbe stato – ancora – necessario sottrarre (questa volta) qualche giorno, per mettere l‘anno alla pari e far coincidere così (di nuovo) le stagioni. A correggere questa (piccola) sfasatura intervenne la riforma del Papa Gregorio XIII (nel XVI sec.). Si decise infatti che in occasione di determinati anni bisestili (quelli centenari) non si aggiungesse la giornata in più. E allora per recuperare tutta la eccedenza accumulatasi negli anni già trascorsi dal tempo di Cesare a quello di Gregorio, fu necessario eliminare dal calendario 11 giorni. Così in quell’anno 1582, anno della riforma “gregoriana” del calendario, dopo il 4 ottobre si passò direttamente al 15 ottobre. In seguito solo gradualmente la riforma fu accettata in tutta Europa. Luigi Casale