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Coronavirus, test rapidi non riconoscono varianti e per questo non possono considerarsi efficaci

Federico Falcone di Federico Falcone
3 Febbraio 2021
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L’Aquila. “Attualmente non ci sono studi che valutino se i test antigenici rapidi disegnati per riconoscere la proteina S del virus nativo funzionino sulle varianti del virus SarsCoV2 che sono note avere proprio mutazioni sulla proteina S del virus. Non sappiamo, quindi, se i test basati sul riconoscimento antigene S-anticorpo stiano rilevando le varianti attualmente in circolazione, così come non sappiamo se le nuove varianti riusciranno a sfuggire alle terapie con anticorpi monoclonali e ai vaccini che evocheranno una risposta anticorpale su virus nativo”, spiega il virologo Francesco Broccolo.

“Al momento, rileva, i test antigenici rapidi riconoscono la proteina S del virus che circolava nel febbraio 2020. Per i test molecolari è possibile, da parte delle case produttrici, fare continui aggiornamenti valutando le mutazioni descritte nelle varianti del virus SarsCoV2 che vengono depositate e registrate nelle grandi banche dati genetiche internazionali. Inoltre, contrariamente ai test antigenici che rilevano un solo target, i test molecolari sono multigenici (cioè amplificano più regioni del genoma virale) e quindi il risultato non viene inficiato se una delle regioni non viene amplificata a causa della mutazione.

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“In linea di massima i test antigenici rapidi di prima e seconda generazione (attualmente i più utilizzati) hanno una buona specificità, ma sono circa mille volte meno sensibili del tampone molecolare, dando una percentuale di falsi negativi oltre al 60%”, prosegue il virologo. Il problema è il modo con cui viene valutata la sensibilità da parte dei produttori: questa, prosegue, “viene calibrata sulla base del confronto con un numero esiguo di tamponi molecolari, che può andare da un minimo di 30 fino a 300, la maggior parte dei quali positivi alla ricerca del genoma del virus SarsCov2 con la tecnica della reazione a catena della polimerasi (Pcr)”.

“I campioni hanno diverse quantità particelle virali in quanto sono prelevati in momenti diversi della malattia e selezionati dalle aziende produttrici dei test”. Si tratta, secondo Broccolo, di “validazioni non basate sulla letteratura scientifica” e può facilmente accadere che “se i tamponi di riferimento hanno tutti una carica molto alta, anche la sensibilità dei test risulti elevata”, tale da soddisfare i requisiti richiesti dal ministero della Salute relativa ai test antigenici, che prevede una sensibilità del 90%. Nella pratica, quindi, “le dichiarazioni di sensibilità e specificità riportare dai produttori dei test antigenici non sono confermate da studi clinici, ma fatte su un numero esiguo di campioni clinici selezionati”.

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