L’Aquila. Ci sono persone che con apparente normalità riescono a realizzare la propria vicenda umana con significativi risultati senza subire le seduzioni dell’apparenza, mettendo a frutto il loro talento, la determinazione e la tenacia tipici di certa gente d’Abruzzo. Un caso emblematico è quello a Domenico Santacroce, giovane di Pratola Peligna, che una cinquantina d’anni fa dopo gli studi all’Istituto Alberghiero di Roccaraso scelse le vie dell’emigrazione per meglio conoscere, in eccellenti Resort di Scozia e Londra, tutti i segreti della cucina internazionale e delle buone maniere nei servizi dell’ospitalità e dell’accoglienza. Poi il ritorno nella sua terra, a Sulmona, a mettere in pratica la sapienza acquisita. E insieme a questo il coraggio di scelte imprenditoriali, osate calibrando la giusta dose di temerarietà e di buonsenso. Questa, in sintesi, la storia di Domenico che Antonio De Panfilis racconta con una narrazione avvincente nel volume “Vita, opere e buona sorte di Domenico Santacroce” (Edizioni Tabula Fati), uscito da un paio di settimane e che presto sarà presentato nella città di Ovidio. Un libro intrigante, che si legge tutto d’un fiato. Il volume, per di più, reca una bella Presentazione di Vittorio Sgarbi, una magnifica Postfazione dello scrittore Giovanni D’Alessandro ed in quarta di copertina una nota di Nicola Gardini, scrittore poeta pittore, docente ad Oxford. Tra tali insigni personalità chi scrive, per desiderio dello stesso Domenico Santacroce e dell’autore, ha vergato le pagine dell’Introduzione al volume.
Prossimamente, come si diceva, il volume sarà presentato a Sulmona, con la partecipazione di Vittorio Sgarbi, Giovanni D’Alessandro, Nicola Gardini, Goffredo Palmerini e Antonio De Panfilis, non appena verranno assicurare tutte o gran parte delle loro presenze. Per il momento ecco qualche anticipazione sull’opera. Il libro ha avuto una lunga e laboriosa gestazione, come dichiara nei ringraziamenti l’autore – giornalista ed esperto di comunicazione –, citando la fruttuosa messe di consigli e pareri ricevuti nel corso della preparazione del testo da personalità quali l’antropologo Franco Cercone, l’esperto di erbe officinali Enzo Presutti, biologo e già docente alla Sorbona, l’umanista e storico Mario Setta, lo chef di Villa Santa Maria Antonio Stanziani, erede d’una genìa di cuochi d’altissimo livello, il docente d’italianistica all’Università di Ottawa Franco Ricci, assiduo frequentatore con i suoi studenti degli hotel Santacroce, dal professore e poeta Giancarlo Giuliani, cui si deve l’editing ufficiale del volume, Marco Solfanelli per la casa editrice Tabula Fati, il grande scrittore Giovanni D’Alessandro, che al volume ha regalato una Postfazione ricca di richiami e con una singolare reinterpretazione dell’ovidiana “Sulmo mihi Patria est”. E ancora il prof. Nicola Gardini, insigne latinista, che ha scolpito le sue impressioni sul libro nella quarta di copertina, l’imprenditore della famosa fabbrica dolciaria Antonio Pelino, docente universitario di economia e storia, recentemente scomparso. Infine chi scrive, chiamato a comporre l’Introduzione che apre il volume. Nel libro anche un inserto di 16 pagine d’immagini a colori e una preziosa Appendice culinaria, di 25 pagine, con alcune ricette e menu proposti da Domenico Santacroce, compreso il menu del pranzo preparato per Benedetto XVI – un grande privilegio per lo Chef –, in occasione della visita pastorale del pontefice a Sulmona, il 4 luglio 2010, nell’ottavo Centenario della nascita di Celestino V.
“Mi fermo sempre all’Hotel Ovidius –scrive tra l’altro Vittorio Sgarbi nella pagina di Presentazione – quando passo per Sulmona. Sempre. Forse perché ciò che mi ha colpito di più è la collezione di opere d’arte su tela appese alle pareti. I quadri. Non poteva essere diversamente, direbbe qualcuno, dato il mestiere che faccio. Ricordo che capitai lì nella hall, non so come, una prenotazione casuale, anni fa. E scorgere prima un dipinto di Formichetti… e poi un bozzetto di Carrà, distribuiti anche per le scale di quell’hotel che affaccia sulla splendida cattedrale di San Panfilo, beh, un po’ la percezione complessiva della giornata l’aveva cambiata. Migliorata. […] Questo libro rappresenta la vita di un abruzzese come tanti che, nei fatti, come tanti non è. Anche perché Domenico Santacroce ha avuto l’accortezza di donare un luogo d’arte a un luogo di lavoro e di accoglienza. “Arte dell’accoglienza”, non solo in senso lato. Ha reso un servizio in più al cliente, ma anche alla città stessa, già di per sé ricca di storia e convergenze culturali. Quando un imprenditore fa un po’ di più rispettosa quanto il mercato gli richiede, oltre a muovere dei flussi di gente per mestiere, ebbene egli adempie ad un compito che è proprio dell’arte e della vita stessa, quello di alzare – conclude Sgarbi – la fantasia e i circuiti dell’animo, le declinazioni interiori che avvicinano l’uomo a qualcos’altro”.
Singolare la Postfazione di Giovanni D’Alessandro, scrittore che non finisce mai di stupire. Confidenziali e colloquiali le sue annotazioni rivolte all’amico Domenico Santacroce, che definisce “mahatma”, specie per quel tratto quasi spirituale con il quale Domenico affronta le ascese del monte Morrone alla ricerca di erbe ed essenze che impreziosiscono di sapori i suoi migliori piatti. “[…] Volendo farti una lode indiana, – annota tra l’altro D’Alessandro – vorrei scrivere che sei un mahatma, o almeno un piccolo mahatma, cioè una piccola grande anima, operante non sulla riva del Gange, ma del Gizio. Il racconto di tutta la tua vita contenuto in questo libro lo conferma. E comunque, religione o non religione, sei uno dei grandi peligni. Lo sei nella concretezza dell’attività quotidiana dell’imprenditore come nell’hobby dei fornelli. Le virides malvae di Ovidio, le carni dell’agnello, del capretto, del manzo da lui celebrate, nelle luculliane mense del tempo di Augusto, uno come te di certo lo aspettavano da un paio di millenni. Adesso voglio chiudere con un’altra cosa che forse ti divertirà e non so se sia mai stata scritta, della nostra città. […]”. E qui Giovanni D’Alessandro dà una sua versione ulteriore del motto ovidiano Sulmo mihi Patria est, che il brillante scrittore reinterpreta in senso culinario. Lasceremo la cosa in sospeso, per la curiosità dei lettori.
“[…] Un momento fondamentale di questo libro – scrive in quarta di copertina Nicola Gardini –, che è molti libri insieme, sta nel racconto della guarigione da un male mortifero che Domenico ha saputo darsi attraverso l’esercizio appunto della conoscenza di sé, quasi da filosofo antico. Come ancora oggi sale per le balze del Morrone a raccogliere erbe, così questo perenne migrante della volontà scende per i valloni del cuore e delle viscere e si cerca, salvandosi. La sua maestria culinaria non è disgiungibile dalla sua eccellenza umana: il rispetto e la cura degli altri che la buona cucina rappresenta sono anzitutto vocazione e impegno alla dignità personale. Con queste briose pagine, piene di humour, di esperienze e di saggezza, Domenico Santacroce ci consegna un meraviglioso esempio di amore della vita e di serietà morale. La sua vicenda fortunata di picaro abruzzese ci comunica tante bellezze, tanti momenti di storia italiana (e non solo), ma soprattutto una verità fondamentale: che il male non si supera senza sofferenza”. Perché della storia di Domenico Santacroce, raccontata nel libro, s’abbia qualche indicazione in più, qui di seguito si riporta il testo dell’Introduzione al volume.