Amatrice. Ecco il silenzio, quello che non vorresti mai sentire. Poche voci, qualche lamento. E’ la calma piatta del dramma consumato. E’ una storia già vista. E’ quasi l’alba, Amatrice è deserta, come lo era L’Aquila. Le strade sommerse dalle macerie, quelle interne, dove ancora non c’è nessuno, assomigliano al centro dell’Aquila. I superstiti girano in pigiama. Non c’è Piazza Duomo, qui c’è Piazza Antonio Serva, ma cambia poco. Le persone in pigiama, scalze e sporche di sangue vagano senza una meta. La parte più interna del centro storico, quella inaccessibile se non arrampicandosi sulle macerie, è uno scenario apocalittico. Tutto sembra uguale ad allora. Ma allo stesso tempo tutto è nuovo, diverso. Ci sono lamenti sotto le macerie. I soccorritori non sono sufficienti a occuparsi di ogni sepolto, di ogni sepolto vivo. Poi pian piano il mare di macerie e la spianata di cemento e calcinacci si popolano. Arrivano i vigili del fuoco, i soldati, il soccorso alpino, la croce rossa, la protezione civile, i carabinieri. Verso le otto si scava sotto la maggior parte delle case crollate, ma non basta. Ce ne sono altre, ce ne sono ancora. Solo dopo le nove quasi sotto tutte le case si scava. Ma sono già passate quasi sei ore. Troppo tardi, troppo poco. E Amatrice non è L’Aquila, è circa un ventesimo. Fuori i morti, li riconosci perché sembrano pesare di più, si estraggono a fatica. Fuori i vivi, e si tira un sospiro di sollievo che però dura poco perché si ricomincia. Poi ritorna il silenzio, quel silenzio che non vorresti sentire mai. Pietro Guida