Roma. Nel 2015, il giornalista di inchiesta Emiliano Fittipaldi, direttore di Domani, è entrato in possesso di un documento che sembrerebbe attestare che, dopo il rapimento avvenuto il 22 giugno 1983, Emanuela Orlandi sarebbe stata condotta a Londra, dove sarebbe rimasta per qualche tempo. Un documento che riporta una dicitura singolare: “Spese per l’allontanamento domiciliare di Emanuela Orlandi”, conservato in una cassaforte della Prefettura degli Affari Economici del Vaticano. E che, una volta reso noto, la Santa Sede ha bollato come falso. Era il 2017, anno in cui Fittipaldi ha pubblicato Gli impostori. Inchiesta sul potere, in cui ha raccontato i retroscena della “pista inglese”.
Una lettera dell’arcivescovo di Canterbury
Uno scenario che, all’inizio, anche la famiglia Orlandi ha considerato con qualche diffidenza. Più recentemente, Pietro, il fratello della scomparsa, avrebbe acquisito informazioni (forse) idonee ad avallarlo. “Sono entrato in possesso di documenti in cui ci sono riscontri che mi dicono che quanto c’è scritto in quei fogli è vero”, ha dichiarato. “Alcune persone, in contatto con personalità della Chiesa Anglicana, mi hanno detto delle cose in relazione alla presenza di Emanuela a Londra. Ci sono delle relazioni tra personaggi di alto livello del Vaticano e le istituzioni inglesi.”
I “personaggi” cui Pietro fa riferimento sono l’arcivescovo di Canterbury dell’epoca, George Leonard Carey e l’allora vicario di Roma Ugo Poletti, lo stesso che aveva autorizzato la tumulazione della salma di Enrico De Pedis, boss della Banda della Magliana, nella Basilica di Sant’Apollinare. In una comunicazione epistolare del primo indirizzata al secondo si leggerebbe: “Ho saputo che lei in questo momento sta a Londra quindi spesso ci siamo scritti e riguardo la questione di Emanuela Orlandi forse è il caso che ci incontriamo direttamente.”
Parla “un servitore della Repubblica”
Un altro elemento che – apparentemente – sembrerebbe confermare la “pista inglese”, è il “documento riservatissimo” pervenuto di recente alla redazione del Corriere della Sera, firmato da un non meglio identificato “servitore della Repubblica”. Secondo costui, “l’operazione Orlandi”, come definisce il rapimento della giovane, sarebbe stata “comminata” dopo non precisati contatti tra “un agente del Sisde e il sig. Ercole” [il padre di Emanuela], di certo inconsapevole e vittima di pressioni. Il testo descriverebbe poi la dinamica del rapimento stesso: il 22 giugno 1983, alle ore 20, Emanuela sarebbe già stata trasferita a Civitavecchia e, da lì, sarebbe in seguito giunta in Sardegna (a Santa Teresa di Gallura, precisamente) per poi partire verso l’estero. Il “servitore della Repubblica” afferma che, allo scopo, sarebbero stati impiegati agenti dormienti dell’organizzazione Gladio. E il possibile punto di contatto del documento in questione e la “nota spese” emersa nel 2017 sarebbe questo: “Fino al 2000 Emanuela Orlandi potrebbe essere stata ospite in Inghilterra ‘sotto protezione’ di una fondazione ecclesiastica… Il potrebbe è d’obbligo”, precisa l’anonimo, “perché rintracciarlo ufficialmente diventa complicato: secondo la giurisprudenza britannica infatti certe fondazioni non sono obbligate a comunicare informazioni su benefattori o associati.” Però: “La cosa certa è che tra il 1993 e il 2000 Emanuela è stata ospite in una casa di South Kensington, a Londra, sotto la gestione dello Ior, che ha provveduto al suo mantenimento lontano dagli affetti, con il plauso e l’appoggio del Sacro collegio per le opere misericordiose, che a quel tempo utilizzava come cassa la fondazione Nova.” Anche questo, ovviamente, privo di riscontri e da verificare.
Ancora la “nota spese” del 2017
Alla luce di quanto emerso non è possibile, quindi, non tornare a interrogarsi sulla presunta “nota spese” recuperata da Fittipaldi e, come detto, generalmente ritenuta un falso. Di che si tratta, esattamente? La descrive lo stesso giornalista in un articolo pubblicato su Repubblica: “C’erano dei fogli: una lettera di cinque pagine, datata marzo 1998. È scritta al computer o, forse, con una telescrivente, ed è inviata (così leggo in calce) dal cardinale Lorenzo Antonetti, allora capo dell’Apsa (l’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), ai monsignori Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran.”
“Al tempo”, continua Fittipaldi, “Giovanni Battista Re era il sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato della Santa Sede; Jean-Louis Tauran era il numero uno dei Rapporti con gli stati, un’altra sezione del dicastero della Curia romana che ‘più da vicino’, come spiega il sito del Vaticano, ‘coadiuva il Sommo Pontefice nell’esercizio della sua suprema missione’. Insomma, Re e Tauran erano nei vertici della Curia e, secondo l’estensore del documento, si sarebbero occupati direttamente della vicenda Orlandi. Il nome di Re era spuntato fuori già dalla lettura della prima sentenza istruttoria sul caso, firmata dal giudice Adele Rando nel 1997.”
E prosegue: “La presunta missiva di Antonetti, come molte altre a cui ho avuto accesso nelle mie inchieste sulla Santa Sede, non era firmata a penna. Alla fine, l’autore chiariva che non era stata nemmeno protocollata, ‘come da richiesta’. ‘Resoconto sommario delle spese sostenute dallo Stato Città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi (Roma 14 gennaio1968)’, è il titolo.”
Lo stesso giornalista definisce il documento “inquietante” e valuta ovviamente la possibilità che possa trattarsi di un falso: “Perché, fosse un documento non genuino, significherebbe che gira da almeno tre anni un dossier devastante fabbricato ad arte per aprire una nuova stagione di ricatti e di veleni in Vaticano. Chi e quando avrebbe costruito un simile documento, che […] contiene dettagli, indirizzi, nomi e circostanze molto particolari che solo un soggetto ‘interno’ alla Città Santa poteva conoscere così bene? Se non è davvero stato scritto dal cardinale Antonetti, chi l’ha redatto con tale maestria, e chi l’ha poi messo, anni fa, nella cassaforte della Prefettura?”
176 Clapham Road, Londra
Interrogativi posti nel 2017, ancora in attesa di ricevere una risposta. Certo, non si può sottacere un dato apparentemente significativo: a quanto precisato da Fittipaldi in un’intervista a Mowmag, l’indirizzo londinese presente nella nota spese risulta essere il medesimo cui l’arcivescovo di Canterbury ha inviato la lettera diretta al cardinal Poletti: Clapham Road, Londra. “Rette Vitto e Alloggio 176 Clapham Road Londra, L. 8.000.000”, leggiamo in effetti nella nota, consultabile su Internet. E una breve ricerca ci permette di accertare che a quell’indirizzo si trova, fin dagli anni Sessanta, un ostello della gioventù esclusivamente destinato a ragazze e studentesse gestito dai Padri Scalabriniani.
Lo conferma Fittipaldi a Mowmag, riferendo di essersi recato in loco nel tentativo di “trovare e analizzare i registri [dell’istituto]. Se questo documento fosse vero, e non una fandonia”, riferisce, “io cercavo delle evidenze, di certo non Emanuela Orlandi. Cercavo dei registri per capire, nell’anno in cui Emanuela sarebbe arrivata nell’istituto degli scalabriniani, se ci fosse qualche indizio, nome. Secondo me utilizzava un nome falso. I registri non me li hanno fatti vedere, dicendo che non esistevano più.”
Sgombrare il campo da ombre ed equivoci
Dunque la “pista inglese” è davvero priva di fondamento? Si tratta di un sofisticato depistaggio, costruito ad arte, in tanti anni e con tanto impegno? È quanto speriamo ci dicano i nuovi sviluppi investigativi dell’indagine in corso. Che auspichiamo prosegua, con l’approccio programmaticamente adottato dal promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi che, in una recente intervista al Corriere della Sera, ha dichiarato: “Su alcuni documenti probatori non dovranno più insinuarsi equivoci, non ci potranno essere ombre sulle quali possa continuare ad addensarsi un alone di mistero. Se non svolgerò le attività di indagine accuratamente – anche se per quelle a cui ho accennato opererò all’interno del Vaticano – sarò sotto gli occhi di tutto il mondo. E non voglio assolutamente che si possa pensare che, in qualche modo, abbia preservato qualcuno o coperto qualche situazione. Questo rischio non lo voglio correre, non me lo posso permettere. In Vaticano conoscono tali mie prerogative e ho raccolto ampie garanzie poiché siamo accomunati dagli stessi intenti.”