Firenze. In questi giorni si è parlato molto di quanto dichiarato, nel corso di una trasmissione televisiva, dai legali delle famiglie di alcune vittime di Mostro di Firenze a proposito della pallottola rinvenuta nell’orto di Pietro Pacciani, nel corso di una perquisizione effettuata il 29 aprile 1992. Nel 1994, all’epoca della condanna in primo grado del contadino di Mercatale per i delitti dell’omicida che ha insanguinato le campagne toscane negli anni Settanta e Ottanta, si era propensi a ritenere che tale proiettile fosse stato caricato nella Beretta .22 che, com’è noto, il Mostro aveva impiegato nei suoi omicidi e che non è mai stata recuperata.
Nei giorni scorsi, con riferimento a più recenti accertamenti, gli avvocati hanno quindi rimarcato che “due perizie del Ris e una perizia di Davide [Paride, ndr] Minervini, il consulente balistico del pm, dimostrano che il proiettile ritrovato nell’orto di Pacciani nel 1994 [1992, ndr] non è mai stato incamerato in una pistola Beretta calibro 22, quindi non può essere un indizio o una prova.”
Sviluppi del 2019 e del 2022
Chi segue la vicenda del Mostro di Firenze sa che tale sviluppo risale invero agli anni scorsi. Nel luglio 2022 i giornali hanno riferito appunto di una perizia dei Ris di Roma secondo cui il proiettile non sarebbe stato alloggiato all’interno di una Beretta .22. E una relazione tecnica del perito balistico Minervini del 2019, era giunta alla conclusione che i segni sul proiettile non fossero risultato delle impronte dell’inserimento nella camera dell’arma del Mostro, ma creati ad arte e che la prova contro Pacciani non fosse, dunque, genuina. Tre anni fa, quest’ultima consulenza tecnica è stata redatta a ridosso dell’apertura di un’indagine specificamente tesa a individuare eventuali responsabili dell’alterazione. Il lungo tempo trascorso dall’epoca dei fatti avrebbe reso però impossibile procedere in tal sento e giustificato dunque una richiesta di archiviazione dell’indagine stessa.
La sentenza di assoluzione di Pacciani sulla pallottola rinvenuta nell’orto
Risalendo ai precedenti sviluppi del caso, riserve sulla genuinità della pallottola e sulle circostanze del suo rinvenimento, si ritrovano nella sentenza con cui, il 13 febbraio 1996, la seconda sezione della Corte di Assise di Appello di Firenze ha assolto Pacciani dall’accusa di aver commesso i delitti.
Con riferimento alla sentenza di condanna in primo grado, la Corte d’Appello ha contestato, tra l’altro, il fatto che, in essa, i giudici non si fossero preliminarmente posti il problema dell’effettiva attribuibilità della cartuccia all’imputato, dimostrando di partire comunque dal presupposto che la stessa fosse stata comunque da lui posseduta.
E per quanto riguarda, in particolare, le circostanze del ritrovamento, i giudici di secondo grado scrivono: “Qui non si intende riconoscere fondamento ad un’ipotesi di frode processuale, pur prospettata in modo trasparente dalla difesa dell’imputato, e non perché si riponga affidamento aprioristico sulla correttezza degli Ufficiali di P.G., ma semplicemente perché la difesa stessa non ha fornito elementi obbiettivi, a sostegno della sua gravissima prospettazione, né questi sono emersi dal processo.” E prosegue: “Ciò non significa che non si possa e debba, in questa sede, affrontare il tema relativo alla genuinità dell’elemento di prova, che sempre va affrontato, ed a maggior ragione in presenza di un elemento cui la pubblica accusa ed il giudice ‘a quo’ attribuiscono importanza decisiva ai fini del convincimento di colpevolezza dell’imputato.”
La perquisizione
I giudici della Corte d’Appello si sono quindi dedicati a ripercorrere le circostanze del rinvenimento, basandosi sulla documentazione in atti. A partire dal 27 aprile 1992, polizia e carabinieri hanno sottoposto a perquisizione le abitazioni e altri luoghi nella disponibilità di Pacciani, compreso l’orto in cui in recupero sarebbe avvenuto. Le operazioni sono state eseguite con l’impiego di apparecchiature per la ricerca dei metalli e filmate.
Il 29 aprile pioveva e chi stava procedendo alle operazioni ha approntato una parziale copertura dell’orto dell’indagato, “con elementi tubolari, teli di plastica, ed un pezzo di tettoia di plastica semirigida ondulata, al fine di evitare il compattarsi del terreno”, si legge nella sentenza. Uno dei paletti di cemento che delimitavano il vialetto, spezzato in due tronconi, era stato collocato agli inizi del vialetto stesso.
Alle 17,45, un ufficiale di P.G. impegnato nella perquisizione “notava, a suo dire, uno scintillio metallico provenire dalla terra di riempimento di uno dei fori di uno dei due tronconi del paletto di cemento; osservato più da vicino il foro, avanzava l’ipotesi che lo scintillio fosse dovuto ad una cartuccia, resasi parzialmente visibile per lo sgretolamento del terreno provocato dal transito degli operatori; ad un’ulteriore osservazione, appariva chiaro che si trattasse di una cartuccia, e questa veniva rimossa dalla sua sede e pulita nella parte del fondello, sì che risultava trattarsi di munizione calibro 22 ‘Long Rifle’ con proiettile di piombo, recante impressa sul fondello la lettera H.”
I “punti oscuri” del ritrovamento
La sentenza ravvisa in questa ricostruzione alcuni “punti oscuri”. I paletti di cemento posti a delimitare il vialetto dell’orto erano numerosi e risulta singolare che si sia rotto solo quello in cui si sarebbe trovata la cartuccia. Le circostanze della rottura non sono state chiarite, non sono mai stati sentiti – né indicati – i vigili del fuoco che l’avrebbero provocata. Proprio quei due tronconi e non altri paletti, sono stati posti agli inizi del vialetto, appena fuori della copertura di plastica ondulata, nel punto di maggiore passaggio degli operatori, al quale si doveva giungere chinati per la ridotta altezza della copertura stessa. E, in questo modo, l’ufficiale avrebbe appunto notato lo “scintillio metallico” provenire dal foro di uno dei due tronconi.
“Ma, osserva questa Corte, sfugge al comune intendere come possa essersi prodotto quello scintillio metallico”, si legge nella sentenza. Erano le 17,45 di un pomeriggio di aprile, piovoso e comunque con cielo coperto. La cartuccia, secondo la stessa descrizione contenuta nel verbale di perquisizione e le precisazioni fornite in dibattimento, era “imbozzolata” in un grumo di terra, per filmare il quale furono usati i riflettori. La Corte d’Appello definisce “contrastanti” le dichiarazioni degli ufficiali di P.G. circa la posizione della cartuccia nel momento dello “scintillio”. In sede dibattimentale, si legge nella pronuncia di secondo grado, qualcuno ha indicato come parte luccicante, e quindi sporgente, il bordo del bossolo, ma altri hanno riferito che si intravedeva la parte dell’ogiva (che è esattamente opposta al fondello) o che la cartuccia era in posizione diagonale rispetto alla colonnina e la parte che fuoriusciva era quella relativa al fondello. Il filmato dell’estrazione della cartuccia mostra una posizione diagonale dell’oggetto “ed un’estrazione con una pinzetta che stringe l’oggetto in un punto mediano tra fondello ed ogiva.”
“Non si comprende, allora, quale parte potesse luccicare all’esterno”, ribadisce la sentenza. “Anche ad ipotizzare che si trattasse del fondello, non si comprende come esso potesse scintillare, nelle predette condizioni di ridotta visibilità, ed essendo esso ricoperto di terra, tant’è che dovette essere ripulito perché si arrivasse a comprendere che si trattava del fondello di una cartuccia calibro 22, con impressa la lettera ‘H’.”
Ancora: “E pur dopo tale ripulitura la cartuccia si presentava quasi interamente incrostata di terriccio nelle restanti parti, come si intravede dalla ripresa filmata dell’estrazione, e come appare chiaramente dalle fotografie allegate alla relazione tecnica del Gabinetto Regionale di Polizia Scientifica di Firenze, che esaminò il reperto il giorno successivo a quello del ritrovamento.”
Il 6 giugno 1992, dopo il conferimento dell’incarico peritale da parte del G.I.P. in sede di incidente probatorio, i periti “trovavano la cartuccia quasi interamente ricoperta di terriccio, come specificato alla pagina 13 della relazione peritale e risultante dalla foto n. 20 allegata: tant’è che in quella sede il terriccio veniva rimosso […].”
Concludono quindi i giudici di secondo grado: “Quanto esposto legittima, dunque, obbiettive e consistenti perplessità in ordine alla genuinità dell’elemento di prova.” Il 12 dicembre 1996, la Cassazione avrebbe annullato con rinvio la sentenza di assoluzione, censurando la decisione dei giudici di merito di non accogliere la richiesta, avanzata dal P.G. in sede di discussione, di acquisire una prova testimoniale sopravvenuta. Pacciani sarebbe morto prima dell’inizio del nuovo processo di appello.
Una lettera anonima
Le “obbiettive e consistenti perplessità” cui fa riferimento la sentenza di assoluzione, ora rilanciate dalle relazioni tecniche di cui si è parlato nel 2019 e nel 2022, non possono che richiamare alla memoria un’ulteriore circostanza. Una lettera anonima, recuperata tra le carte processuali dal documentarista Paolo Cochi, che da anni si interessa del caso. Dattiloscritta, indirizzata al direttore del quotidiano La Nazione e, per conoscenza, all’avvocato Pietro Fioravanti, uno dei difensori storici del contadino di Mercatale, e recante la data del 18 novembre 1991, appena cinque mesi prima della perquisizione nell’orto di Pacciani culminata con il singolare ritrovamento. In quel periodo, lo stesso stava finendo di scontare, in carcere, la pena cui era stato condannato per violenze sessuali inflitte alle figlie.
Il testo della lettera fa riferimento a due aspetti della vicenda. Menziona il rinvenimento di un fazzoletto insanguinato sulla scena dell’ultimo duplice omicidio del Mostro (7-8 settembre 1985, vittime: Nadine Mauriot e Jean-Michel Kraveichvili), avvenuto poco dopo il delitto, il 3 ottobre 1985. In proposito, l’anonimo suggerisce ai difensori di Pacciani di eseguire test genetici per dimostrare che il sangue non appartenesse al loro assistito, dato in seguito effettivamente acclarato. E, riferendosi alla permanenza di Pacciani in prigione, considera: “La carcerazione quindi è una scusa per tenerlo dento in modo da avere il tempo di creare le prove schiaccianti che lui, il Pacciani, è il vero ‘mostro’; magari andando a sotterrare nel suo terreno la pistola calibro 22 che non spara più da circa sei anni.”
Come interpretare tutto ciò? Anche questo aspetto del caso del Mostro di Firenze continua a porre interrogativi e risulta ancora impenetrabile.