Roma. “Il 90% degli italiani non conosce l’attentato di Fiumicino del 1973. Si parla di tutte le stragi, mai di questa triste ricorrenza. Da qui nasce la mia indignazione e mi domando il perché di tutto questo: non si ricorda un evento del genere in cui sono morte 32 persone tra le quali il finanziere Antonio Zara.”
Sono le parole con cui Antonio Campanile, all’epoca poliziotto in servizio all’aeroporto romano, ricorda la drammatica vicenda con Adnkronos. Una vicenda su cui ancora gravano dubbi e zone d’ombra, un mistero italiano tra i tanti, troppi registratisi in quegli anni e che, come rimarca Campanile, oggi ricordano in pochi.
Eppure, tra le stragi che hanno insanguinato l’Italia nel periodo che va dalla fine degli anni Sessanta ai primi anni Novanta, è la seconda per gravità, dopo quella alla stazione di Bologna.
Attacco
Lunedì 17 dicembre 1973. È primo giorno del processo contro tre dei cinque terroristi palestinesi arrestati il 5 settembre a Ostia con due lanciamissili Sam 7 Strela sovietici. Sono le 12,51. Un commando dell’organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero, composto da cinque persone e sceso da un volo dalla Spagna, irrompe nel terminal di Fiumicino.
Gli uomini estraggono dalle valigie armi automatiche ed esplosivi. Dal terminal procedono verso la pista, sparando e uccidendo due persone. Raggiungono la zona di stazionamento dell’aeroporto, si dirigono verso il Boeing 707 della Pan Am, volo 110 per Teheran, con scalo a Beirut, delle 12,45. Gettano al suo interno due granate dirompenti e una bomba al fosforo.
Gli assistenti di volo tentano di evacuare l’aereo, aprono le uscite di emergenza sulle ali, le altre sono bloccate dai terroristi. Molti passeggeri riescono ad allontanarsi. Trenta rimangono uccisi. Tra loro, quattro italiani: l’ingegner Raffaele Narciso, il funzionario Alitalia Giuliano De Angelis, diretto alla sede di Teheran, con la moglie Emma Zanghi e la figlioletta Monica di 9 anni. Perde anche la vita Antonio Zara, vent’anni, finanziere. È giunto per primo in loco, dopo l’allarme lanciato dalla torre di controllo dell’aeroporto e ha tentato di contrastare i dirottatori.
L’attacco è fulmineo, la risposta delle forze dell’ordine non adeguata. All’epoca, a Fiumicino sono operativi solo 117 agenti: 9 carabinieri, 46 finanzieri, 62 poliziotti. Di questi, solo 8 addetti al servizio anti-sabotaggio. Del tutto insufficienti per un aeroporto intercontinentale come Fiumicino.
Fuga
Dopo la strage, gli uomini del commando si dirigono verso un Boeing 737 Lufthansa in procinto di partire per Monaco di Baviera. Prima di raggiungerlo, passano accanto a un aereo Air France pronto al decollo, diretto a Beirut. A bordo di quest’ultimo, centododici passeggeri e l’equipaggio. Michel Ricq, il comandate, decide di non chiudere il portellone del velivolo al passaggio dei terroristi, temendo che ciò potrebbe attirare la loro attenzione.
Gli arabi proseguono verso l’aereo tedesco. Vi fanno salire degli ostaggi, tra cui sei agenti della dogana di Fiumicino. Costringono l’equipaggio a effettuare le manovre di decollo. Per la prima parte del rullaggio, l’aereo viene inseguito da vari veicoli di Carabinieri e Guardia di Finanza. Che poi abbandonano l’inseguimento perché i dirottatori minacciano di uccidere gli ostaggi.
13,32. L’aereo decolla, diretto ad Atene. Giunge a destinazione alle 16,50. I dirottatori chiedono alle autorità locali di liberare due terroristi palestinesi detenuti nelle carceri greche, accusati dell’attentato all’aeroporto di Atene del 5 agosto 1973. Trattative tese, febbrili, che proseguono per circa sedici ore. E nel corso delle quali i dirottatori uccidono un ostaggio italiano, Domenico Ippoliti, addetto al trasporto bagagli. Il suo corpo viene abbandonato sulla pista.
I detenuti di cui i terroristi pretendono il rilascio, tuttavia, si rifiutano di unirsi a loro. E questo costringe i dirottatori a ripartire. Si dirigono verso Beirut. Le autorità libanesi non concedono loro l’autorizzazione all’atterraggio e occupano le piste dell’aeroporto con autobus e camionette. Altrettanto accade a Cipro, destinazione successiva. Alla fine, i terroristi giungono a Damasco, dove ottengono rifornimenti di viveri e carburante. Sei ore dopo decollano nuovamente, diretti a Kuwait City. Nella tarda serata del giorno successivo, gli ostaggi vengono liberati all’aeroporto Internazionale del Kuwait.
Un caso diplomatico
I terroristi vengono catturati. Dopo averli interrogati, le autorità kuwaitiane decidono di non processarli e valutano di consegnarli all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Si innesca un caso diplomatico che coinvolge molti Paesi arabi, l’Europa e gli Stati Uniti, divisi sulla sorte dei terroristi e sulla nazione competente a processarli.
L’Italia inoltra al Kuwait formale richiesta di estradizione, che non viene concessa e il nostro Paese non effettua ulteriori passi in tal senso.
Nel 1974 il presidente egiziano Anwar Sadat acconsente che i terroristi vengano condotti al Cairo sotto la responsabilità dell’OLP e dalla medesima organizzazione processati per aver condotto una “operazione non autorizzata”.
Il loro soggiorno in carcere si protrae fino al 24 novembre 1974. Quel giorno, in esito a negoziati avviati durante il dirottamento di un aereo britannico in Tunisia – posto in essere proprio allo scopo di richiedere la loro liberazione – i cinque uomini del commando vengono scarcerati. Si dice, con la complicità di molti governi arabi, europei e di quello americano. Da allora, nulla si sa della loro sorte.
“Lo sparatore sono io”
Lo abbiamo detto in apertura. Antonio Campanile era un poliziotto in servizio a Fiumicino al momento dell’attacco. E si è opposto ai terroristi, ai fedayin, esplodendo alcuni colpi d’arma da fuoco da un terrazzo. Un gesto caduto nell’oblio, che lui stesso rievoca nel volume Lo sparatore sono io. Prigioniero dello Stato per aver difeso lo Stato, scritto insieme a Nuccio Ferraro e Francesco Di Bartolomei, presentato il 15 dicembre presso la Fondazione Willy Brandt a Roma.
“Ero in servizio al controllo passaporti quando ho sentito alle spalle un forte boato”, riferisce all’Adnkronos, “raffiche di mitra all’improvviso, gente che scappava, così sono andato all’ufficio dove stava il maresciallo, comandante pro tempore di quel giorno, e ho preso un’arma lunga con 3-4 caricatori e sono scappato sul terrazzo insieme ad altri poliziotti.”
Da lì, ha visto il finanziere Zara, “mio coetaneo, che veniva strattonato” dai terroristi. Poi, “dal portellone dell’aereo si è affacciato un fedayn che ha iniziato a sparare, mi ha visto sul terrazzo e ha iniziato a spararmi anche addosso. Ho visto Zara cadere (sotto i colpi sparatigli alle spalle, ndr) e non ci ho visto più, ho sparato e il terrorista è scappato nell’aereo.”
Prosegue Campanile: “Quando sono sceso dal maresciallo gli dissi che avevo sparato e lui mi chiese di recuperare i bossoli. Poi mi è stato chiesto chi mi aveva dato l’ordine di sparare. Io risposi che era stata una difesa personale, avevo addirittura proposto di bloccare l’aereo invece mi venne rifiutato.”
Il libro riferisce che, nei giorni successivi, Campanile è stato trattenuto in caserma: in forza di un provvedimento che prospettava la possibilità di fuga di informazioni compromettenti. “Il settimo giorno”, racconta, “mi mandarono a casa con una licenza breve, poi al rientro mi sono visto trasferire per tre mesi dall’aeroporto internazionale a quello nazionale, ma non ho mai capito il motivo.”
Tanti gli interrogativi senza risposta dell’ex poliziotto. Sulle motivazioni della strage, sull’oblio che la avvolge e che avvolge il ruolo da lui rivestito nella stessa. “Anni fa andai all’archivio di Stato e non ho trovato documenti sul mio conto, è come se non fossi mai esistito.” In lui, però, il ricordo rimane drammaticamente nitido. “Io non ho mai dimenticato l’odore di carne bruciata di quel giorno e ancora oggi vedo davanti a me la smorfia di Antonio Zara assassinato con un colpo nella schiena.”
Terrorismo e ragion di Stato
Quello di Fiumicino era un attentato annunciato, ma nessun servizio di sicurezza era stato proposto a proteggere l’aeroporto. È quanto si legge sul Riformista di un paio di anni fa. Tre giorni prima dell’attacco, il 14 dicembre 1973, un’informativa in merito era stata inviata al direttore dell’Ufficio affari riservati del Viminale, Federico Umberto D’Amato, dal Reparto D del Sid (i servizi segreti italiani di allora). Vi si legge: “Viene segnalato che elementi di al Fatah sono partiti per l’Europa alcuno giorno orsono allo scopo di attaccare una rappresentanza israeliana o un aereo della El Al. L’attacco verrebbe condotto principalmente contro un aereo.” E allarme era stato preceduto da numerose segnalazioni.
In ogni caso, è noto, la vicenda della strage dimenticata di Fiumicino si interseca con quella del cosiddetto “Lodo Moro” che, proprio nel 1973, sarebbe stato ancora in fase di definizione e deve il suo nome ad Aldo Moro, ministro degli affari esteri nel governo Rumor IV.
Un supposto patto segreto di “non belligeranza” tra lo Stato italiano e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), movimento a sua volta membro dell’OLP. Tramite il quale l’Italia avrebbe garantito ai palestinesi – aiutati da gruppi eversivi italiani – libertà di passaggio di armi ed esplosivi sul proprio territorio. In cambio, l’impegno dei palestinesi a non colpire il nostro Paese. In Italia, gli attentati e gli arresti di palestinesi armati – a cominciare dall’unico dirottamento nella storia di un areo dell’israeliana El Al, il 22 luglio 1968 – erano numerosi. Il 4 agosto 1972 era stato fatto esplodere l’oleodotto di Trieste. Il 16 agosto, due palestinesi avevano regalano un mangianastri imbottito di esplosivo a due ragazze inglesi in procinto di imbarcarsi su un areo della El Al. Subito dopo il loro arresto, erano iniziate trattative per risolvere l’incidente. Ad avviare l’iniziativa diplomatica segreta, il ministro degli Esteri.
Il patto segreto non era però dettato solo da ragioni di sicurezza, ma anche da motivazioni economiche, come avrebbe posto in evidenza la decisione dei Paesi arabi produttori di petrolio di aumentare il prezzo del greggio e di disporre l’embargo verso i Paesi più filoisraeliani, assunta in seguito alla Guerra del Kippur.
E taluni ritengono che la strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973, che avrebbe potuto far naufragare l’accordo segreto in via di definizione, avrebbe invece finito per cementarlo.