L’Aquila. Ha suscitato grande clamore mediatico la vicenda delle tre monache benedettine di Tagliacozzo fotografate davanti all’ospedale dell’Aquila, dove era presente il corpo del boss mafioso Matteo Messina Denaro. Volevano pregare davanti alla sua salma.
L’opinione pubblica si è divisa tra accusatori (la grande maggioranza) e possibilisti (pochi).
C’era anche chi contestava il fatto che le monache di clausura fossero uscite dalle mura del monastero benedettino e oltretutto con l’intenzione di pregare per l’anima di un boss sanguinario.
Le tre monachelle marsicane sono arrivate agli occhi dell’opinione pubblica come tre religiose intenzionate a tutti i costi ad entrare nell’obitorio per pregare sulla salma del boss, e sono apparse come indignate del fatto che gli fosse stato vietato l’ingresso.
Ma come sono andate veramente le cose?
Madre Donatella, l’abbadessa del monastero, e sorella Emanuela, accompagnata dalla consorella Teresa Benedetta, in realtà si trovavano all’Aquila per sottoporsi a delle visite oculistiche. L’abbadessa soffre di una grave forma di maculopatia.
Al termine della visita, passando davanti all’obitorio, hanno pensato di fare una preghiera per la salvezza dell’anima di quel boss spietato e malvagio di cui tutti parlano.
Per comprendere questo desiderio delle monache benedettine, che agli occhi dell’opinione pubblica può sembrare quantomeno stravagante, bisogna fare una premessa.
Le monache di clausura sono per la Chiesa ciò che le radici silenziose sono per l’albero. Senza di loro la pianta non si regge e rischia anche di seccare per la mancanza di nutrimento. Le monache di clausura, benedettine, clarisse o di altri ordini, non fanno rumore e sono in contrapposizione con il frastuono e il grande movimento del mondo. Ci ricordano della necessità di alzare lo sguardo verso l’alto, di sollevarci dalla terra ferma e buia per aspirare all’infinito, così come un albero, grazie alle radici, si lancia verso il cielo. Per le monache, pregare è pane quotidiano. Pregano per il mondo, per i poveri, per l’ambiente, per fermare le guerre, e anche per la salvezza delle anime, pure per quella dei delinquenti, dei peccatori, dei malfattori. Non seguono le cronache dei giornali e per loro l’anima di Messina Denaro è un’anima da salvare, come quella di ogni altro peccatore, come quella di terroristi, stragisti e omicidi.
In molti hanno giustamente osservato: “che pregassero piuttosto per le vittime del boss e per alleviare le sofferenze di chi ha perso figli, mariti e fratelli a causa sua”.
Ma loro lo fanno. Lo fanno già, lo hanno fatto e lo faranno.
Tutto questo non è facile da comprendere e non è facile da accettare.
Tutti ricordano la scomunica ai mafiosi di papa Wojtyla nella Valle dei Templi.
Io ero un ragazzo, ma non dimentico quelle parole appassionate dette a braccio contro i mafiosi.
Finiva così: “Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”. Fu una vera scomunica.
La morte di questo boss, a cui la Chiesa ha negato i funerali e anche la benedizione della salma, risveglia le nostre coscienze.
Oggi ci viene da chiederci: dove si ferma l’infinita misericordia di Dio? È proprio vero che l’inferno esiste ma è vuoto?
Ci chiediamo se c’è una via d’uscita per chi si macchia di grandi ed efferati crimini, di chi non si pente.
Perché sappiamo che Messina Denaro è stato un bambino, un figlio buono amato dalla mamma. Veramente per lui non c’è salvezza?
E se non sappiamo darci una risposta certa, siamo giustificati.
Ma se non sappiamo darci una risposta certa, cos’altro potremmo fare?
È vero, la Chiesa, come ha ricordato il vescovo di Mazara del Vallo, monsignor Angelo Giurdanella, si è messa dalla parte delle vittime e non dalla parte del boss.
Ma dire una preghiera anche per la salvezza della sua anima, è veramente così assurdo e così sbagliato?