Tornareccio. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, su proposta del Ministero dell’Interno, ha conferito al Comune di Tornareccio la Medaglia di Bronzo al Merito Civile, la speciale onorificenza attribuita a persone, enti e corpi che si siano prodigati, con eccezionale senso di abnegazione, nell’alleviare le altrui sofferenze o, comunque, nel soccorrere chi si trovi in stato di bisogno. In particolare, con questa scelta si è voluto rendere onore al coraggio e alla dignità dei tornarecciani durante la Seconda Guerra mondiale, in particolare durante la feroce occupazione nazista avvenuta dopo l’8 settembre 1943.
Questa la motivazione ufficiale: “Dopo l’8 settembre 1943 venne occupato dalle truppe tedesche, con l’ordine di procedere al rastrellamento di tutti gli uomini, alcuni dei quali furono inviati in campi di lavoro in Germania. Subì violenti mitragliamenti dai cacciabombardieri inglesi e la popolazione fu costretta, a seguito dell’ordine di evacuazione tedesco, a lasciare in poche ore le case, mentre l’intero paese fu fatto saltare in aria. La popolazione tutta, nonostante le violenze e le perdite subite, seppe reagire con ammirevole esempio di spirito di sacrificio e di amor patrio. Settembre/Novembre 1943 – Tornareccio (CH)”.
La solenne cerimonia ufficiale di conferimento è in programma mercoledì 30 marzo 2022. Al mattino protagoniste saranno le scuole: alle ore 11.00 nella sala polifunzionale “Remo Gaspari” si terrà l’incontro “Tornareccio, la guerra, lo sfollamento raccontati agli studenti”. Nel pomeriggio le celebrazioni ufficiali inizieranno alle 16.30: al monumento ai caduti picchetto d’onore con le autorità civili e militari. Alle 17 nella sala consiliare del municipio il conferimento della Medaglia alla presenza del sindaco, della giunta, del consiglio comunale e della cittadinanza. Parteciperà il prefetto di Chieti, Armando Forgione. A seguire, le testimonianze dei tornarecciani che c’erano e la scopertura della lapide commemorativa. Alle 18 nella chiesa parrocchiale di Santa Vittoria la santa messa in suffragio delle vittime civili e dei caduti di tutte le guerre. Gran finale sempre in chiesa, con la proiezione del video “Tornareccio c’è ancora”, con gli ultimi sei sindaci che si sono succeduti alla guida di Tornareccio (Elio Monaco, Nicola Berardi, Luigi Iacovanelli, Nicola Pallante, Remo Fioriti e Nicola Iannone), e l’attore Milo Vallone, che interpreta l’articolo “Tornareccio non c’è più”, pubblicato su Il Corriere di Roma del 17 settembre del 1944 dalla straordinaria giornalista Alba De Cespedes, testimone oculare dello sfollamento dei tornarecciani su Monte Pallano.
“Questo solenne riconoscimento – commenta Nicola Iannone, sindaco d Tornareccio – rende onore dopo quasi ottant’anni ai nostri nonni e ai nostri padri, che con umiltà e tenacia sopportarono l’umiliazione di un’occupazione terribile da parte dei nazisti in ritirata, caratterizzata da numerosi episodi di violenza e prevaricazione, e poi culminata con il tentativo di distruzione del paese, per fortuna avvenuto solamente in parte. Quel dolore, quel sacrificio, quella forza, quell’amore sono stati la base per ricostruire una comunità oggi viva più che mai, e che vuole rendere onore alla sua storia e a chi ha lottato per la nostra libertà. In questa singolare circostanza l’amministrazione comunale intende rendere omaggio anche all’illustre cittadino di Tornareccio che, nonostante la gran parte della vita, passata, per ragioni di lavoro lontano dal paese, non ha mai fatto venir meno il suo attaccamento ed affetto per la terra natale: Franco Daniele. È proprio lui che, ripercorrendo le vicende antiche della vita tornarecciana, ha saputo, con rara sapienza, raccogliere informazioni da Archivi di Stato e da testimonianze di cittadini per raccontare gli ultimi cento anni di storia di Tornareccio nella pubblicazione del libro “Tornareccio, Tornacicore”.
I dati, le notizie, le testimonianze raccolte nel libro relativamente al periodo della Seconda Guerra Mondiale sono state preziose al fine di richiedere la ricompensa al valor civile. Il mio ringraziamento, quindi, va alle precedenti amministrazioni comunali che con lungimiranza e amore alla verità storica si sono spese per avviare l’iter, al Presidente della repubblica Sergio Mattarella che ha voluto conferire la Medaglia, al prefetto Armando Forgione che verrà a consegnare ufficialmente l’onorificenza, all’attore Milo Vallone per la sua interpretazione, in un video che vede la partecipazione degli ultimi sei primi cittadini di Tornareccio. E grazie a tutti coloro che, a vario titolo, si stanno impegnando per una cerimonia che, ne sono certo, sarà un momento destinato a rimanere nella storia del nostro amato paese”.
L’intero evento si svolgerà in presenza nel pieno rispetto delle normative anticovid e sarà anche trasmesso in diretta streaming sulla pagina Facebook di Abruzzo Web TV.
TORNARECCIO NON C’È PIÙ
di Alba De Cespedes
Il Corriere di Roma, 17 settembre 1944
La straordinaria giornalista Alba De Cespedes si trovò a passare per Tornareccio la sera del 14 novembre 1943, quando i nazisti deliberarono di radere al suolo il nostro paese. Imbattutasi nella carovana degli sfollati diretta su Monte Pallano, così la sua penna impareggiabile eternò su Il Corriere di Roma del 17 settembre del 1944, la tragedia:
«Fu alla svolta di un bosco, sboccando su una mulattiera sassosa, che incontrammo una gran carovana di gente che saliva. Era un bosco triste e squallido, macchiato di polverose carbonaie. E la gente procedeva in silenzio, come si usa al seguito dei funerali. Contadini, per lo più, famiglie intiere, nonno, mamma, bambini e chi portava un sacco sulle spalle, chi un materasso, finanche i piccoli reggevano qualcosa, magari un paiolo appeso al braccio. Guidava la processione l’arciprete, seduto su un asino magro.
Subito ci arrestammo, intuendo che qualche cosa era avvenuto, una grande disgrazia. Alcuni paesani alzarono appena gli occhi per guardarci, altri ci ignorarono addirittura. Ma un giovane zoppo, attratto dal nostro aspetto singolare, s’arrestò per chiederci di dove venissimo. Spiegammo che avevamo lasciato la città per sfuggire ai tedeschi, eravamo vissuti alla macchia, e adesso, traversate le linee, eravamo liberi, finalmente. Io aggiunsi: “È questa la strada per Tornareccio? Vorremmo dormire a Tornareccio, stasera”. Ma il giovane mi guardò con occhi gravi e disse: “Tornareccio non c’è più”. Poi riprese a camminare, invitandoci con un gesto a seguirlo.
Entrammo anche noi nella processione, allora: il bosco si inerpicava in ripida salita, le donne procedevano a stento, ansimando talvolta si riposavano per un attimo, poi riprendevano caparbiamente a salire. Un vecchio cadde sul terreno scivoloso del bosco, non ce la faceva a rialzarsi, roteava gli occhi quasi non avesse il coraggio di continuare, preferisse morire lì. Allora sua moglie, una vecchia alta e ossuta: “Possà avè la scomunica Mussolini!” esclamò. Intanto la nostra guida aveva rialzato il vecchio e subito tutti ricominciarono a camminare.
Noi seguivamo attoniti e incuriositi. Allora il giovane zoppo prese a parlare piano, senza guardarci: “Siamo tutti di Tornareccio, noi. I tedeschi, cacciandoci, hanno detto che potevamo rientrare stamani”.
Seguitò a spiegare, sottovoce: disse che l’ordine era arrivato d’improvviso: il paese sarà fatto saltare in aria, gli abitanti devono allontanarsi in due ore. Poi un comandante era giunto, esasperato dalla ritirata: “Due ore sono troppe – aveva detto – debbono andarsene subito”. I soldati, allora, erano andati in giro di casa in casa, avevano fatto uscire la gente, via! …via!…, sospingendola per le spalle, uscite immediatamente. Erano solamente donne, vecchi, bambini, “e qualche infelice come me” lo zoppo aggiunse mostrando la gamba rattrappita. “I giovani sono tutti alla macchia”. Disse che qualche donna voleva riprendere un po’ d’oro, nascosto nei ripostigli. Niente: via. Li avevano riuniti in gruppo, poi accompagnati fiancheggiandoli coi moschetti, fino al limitare del bosco. Si permetteva loro di andare a rifugiarsi al villaggio più prossimo. Era notte, ormai: la gente aveva preso a camminare a tentoni tra gli alberi, lasciandosi alle spalle il loro paese condannato a morte.
Nessuno aveva dormito, la notte: ammassati nelle cucine come emigranti nelle stive, avevano udito ogni poco nel notturno silenzio una detonazione sorda. E tutti a ogni scoppio sussultavano: questa sarà la mia casa, la casa di mia madre. Tre uomini si erano alzati d’improvviso ed erano andati alla macchia a raggiungere i partigiani.
La carovana rallentò il passo ed il giovane tacque. Erano arrivati, ci dissero entrando in un sentiero di pietre alte e grigie. Infatti, quasi d’improvviso, alla svolta di un ponte, ci trovammo al limite del paese. La carovana si arrestò, i contadini si ammassarono, zitti, formando una gran massa compatta. Oltre le loro teste ci affacciamo anche noi, quasi a una finestra.
Tornareccio non c’era più. Una volta era stato un paese tranquillo, disteso in mezzo a una radura verde. Adesso, tra le macerie sgretolate, tra gli ammassi di rovine che cancellavano strade e piazze, soffocavano i giardini, s’alzava ancora qualche casa miracolosamente scampata, lugubre e solitaria come un dente nella bocca di un vecchio. La chiesa era stata squarciata quasi per una folgore e dalla crepa profonda si affacciavano gli angeli d’oro venuti giù dal soffitto. Dagli interni sventrati volti buoni e gravi pendevano nelle cornici degli ingrandimenti. In ogni abitazione la mina era stata posta nel focolare, nel cuore della casa, insomma. E da lì, come da un boccascena, i resti dei poveri interni si mostravano in tutto il loro squallore.
Le donne presero a piangere, a lamentarsi, allora: qualcuno chiamava la propria casa, ad alta voce, come una persona amata; alcune sedute in terra si dondolavano e agitavano le braccia, a guisa di un antico coro. Ma una giovane donna magra, dai capelli rossi, si fece avanti, s’affacciò al parapetto del ponte, si tese verso il paese distrutto come verso una terra promessa. Scrutò dappertutto, ansiosa, e poi: “Se ne sò juti – esclamò – se ne sono andati”.
Le donne tacquero e ansiose presero a guardare anche loro: rovine, silenzio, case sventrate, tutto da rifare, insomma; ma non più per le trade circolavano uomini alti e biondi, vestiti di kaki, non più andavano attorno incitandoli col fucile puntato. Gli uomini avrebbero potuto rientrare tutti. Adesso era il turno dei tedeschi quello di fuggire, salvarsi.
Dalla strada opposta, infatti, quella della montagna, un gruppo di giovani scendeva e quasi tutti avevano il fucile in ispalla. Erano partigiani, da mesi lontani: uno, ci dissero, era dovuto fuggire il mattino seguente il matrimonio. Sostarono anche loro a guardare le rovine. Pesava sul luogo un silenzio tremendo, come nei cimiteri e in certi paesi che il terremoto ha devastato. Ma la giovane donna lo ruppe, lo squarciò con la sua voce festosa: “Se ne sò juti – ripeté correndo verso lo sposo – se ne sono andati!”.
S’abbracciarono, al primo incontrarsi. E in quell’atto, la vita del paese distrutto ricominciò».