Ancora oggi la donna nella letteratura è relegata a un ruolo secondario. È evidente nei premi, negli articoli, nei convegni, nelle presenze ridotte al minimo nelle antologie e nei testi di scuola. Anche non dare visibilità è una forma di discriminazione.
La scrittrice francese Simone de Beauvoir, considerata un’antesignana del femminismo, ha lottato contro la società patriarcale e contro un potere che secondo lei è sempre appartenuto agli uomini. Tanto è stato fatto da allora, ma non abbastanza. Il pensiero delle donne ha poco spazio nei media; l’industria culturale, come tante altre realtà, riflette una società ancora maschilista che propone e perpetua stereotipi di genere. Negli ultimi anni molte scrittrici hanno sollevato e alimentato un dibattito sul prestigio letterario e l’esclusione delle donne dai luoghi in cui questo prestigio si realizza: i festival e i premi. Parlarne è importante, sebbene non basti.
Il Novecento è il secolo più emblematico per comprendere il problema dell’esclusione femminile dalle alte sfere della letteratura. Nel 1926 la scrittrice sarda Grazia Deledda è la prima donna italiana (e finora l’unica) a vincere il Premio Nobel per la Letteratura. Eppure oggi il suo nome compare appena nelle antologie e le sue opere vengono nominate raramente, figuriamoci lette. E questo non avviene solo in ambito letterario: ad oggi la Archibugi è l’unica regista donna ad aver vinto un David di Donatello. Se consideriamo il premio Strega, in ben 74 edizioni solo 11 donne lo hanno vinto, e tra queste la prima è stata Elsa Morante con il suo magnifico “L’Isola di Arturo”, nel 1957; l’amico scrittore Raffaele La Capria, bonario e paternalista, disse che era un libro pieno di forza e di immaginazione, pareva impossibile che fosse scritto da una donna.
Dedichiamo questo articolo a lei, una delle scrittrici più potenti e significative del ‘900, libera da correnti letterarie, estranea a tradizioni e modelli affermati. Unica e maestosa, sfolgorante ed enigmatica. Ha solo dieci anni quando scopre che il suo vero padre non è Augusto Morante ma Francesco Lo Monaco, un amico di famiglia che frequenta assiduamente la loro casa. È una verità dolorosa e straziante, una ferita non rimarginabile. Finito il liceo lascia la famiglia andando a vivere in camere ammobiliate, sostentandosi con lavoretti d’occasione e collaborazioni giornalistiche. Scrive in una stanza, da sola, con una penna e in compagnia dei suoi gatti e racconta solitudini, nevrosi, lotte dell’anima, la sua immaginazione è un fuoco che arde. Aveva iniziato da bambina a comporre fiabe, poesie, storie e continuerà per tutta la vita, una vita inquieta in cui forse l’unica salvezza è ricercata proprio nella scrittura, che è un voto per lei, un sacrificio, una ricerca delle origini, di una tana protetta. Sposa Alberto Moravia, frequenta artisti e intellettuali come Saba e Pasolini, viaggia molto. Ma gli ultimi anni sono difficili, la vecchiaia è un uragano che spazza via tutto, lei ha orrore del disfacimento fisico, attraversa momenti di sconforto e depressione, periodi di difficoltà nella scrittura, un femore fratturato in seguito a una caduta la obbliga a letto impedendole una vita libera e autosufficiente, arriverà a tentare il suicidio.
Inventare è ricordare, disse una volta. Tutti i suoi romanzi raccontano una storia di dolore, vi troviamo sempre volti di madri, scomparse tradite cercate rimpiante. In “Menzogna e sortilegio” la protagonista resta sola dopo la morte della madre adottiva, “L’isola di Arturo” ha al centro un ragazzino orfano di madre, morta dandolo alla luce, che cresce in solitudine con un padre assente e fuggevole, ne “La storia” ci sono una donna violentata e un figlio senza padre, in “Aracoeli” un quarantenne fallito e omosessuale infelice parte alla ricerca del fantasma della madre morta, una ragazza andalusa, ricordo felice e insieme prigione, il viaggio come desiderio disperato di recuperare un paradiso perduto. Una storia diversa dalle precedenti, disperata, colma di sofferenza. Nel 1983, a pochi mesi dalla pubblicazione, tenta il suicidio. Non scriverà più e morirà due anni dopo per un infarto. Proprio in “Aracoeli” troviamo le parole che tradiscono la fatica e il dolore di vivere: “Ogni creatura, sulla terra, si offre. Patetica, ingenua, si offre: sono nato! eccomi qua, con questa faccia, questo corpo e quest’odore. Vi piaccio? Mi volete? Da Napoleone, a Lenin e a Stalin, all’ultima battona, al bambino mongoloide, a Greta Garbo e a Picasso e al cane randagio, questa in realtà è l’unica perpetua domanda di ogni vivente agli altri viventi. Vi piaccio? Mi volete?”