Finlandia. Un’enorme torcia, con una fiamma alta diversi metri, brucia sul confine orientale tra Russia e Finlandia.
Le immagini sono state notate durante un’escursione nell’arcipelago esterno di Hamina, città finlandese di 21.400 abitanti situata nella regione del Kymenlaakso. La foto è stata scattata da Ari Laine con un telescopio e confermerebbe quello che gli esperti sostengono da mesi: ovvero che la Russia, intenzionata a non vendere il suo gas all’Europa, preferisce bruciare il gas in eccesso anziché immetterlo nel gasdotto NordStream1. Secondo gli osservatori finlandesi le fiamme si levano alte nel cielo ormai da più di un mese, all’incirca dal 17 giugno, in direzione della stazione di compressione di Portovaya, di proprietà della multinazionale russa Gazprom. A conferma di questa tesi ci sarebbero anche le immagini rilevate dal sistema di monitoraggio degli incendi della NASA, che confermerebbero la circoscrizione dell’incendio solo intorno alla stazione di gas naturale e petrolio e non altrove.
Il valore del gas bruciato ammonterebbe a circa dieci milioni di dollari al giorno, questo è il prezzo che la Russia a quanto pare è disposta a pagare pur di mantenere il punto con l’Europa, e almeno finché non sarà pronto un nuovo gasdotto che porterà il gas in Asia, anche se questo non avverrà prima del 2025.
Alcuni sostengono che si tratti di “flaring”, la distruzione controllata e deliberata del gas in eccesso mediante combustione, forse però sfuggita di mano ai tecnici della Gazprom, che a causa delle sanzioni occidentali potrebbero non avere accesso ai ricambi necessari per effettuare la giusta manutenzione e porre rimedio al problema. Allo stesso modo potrebbe aver influito la mancanza di tecnici specializzati sul posto, sempre a causa delle sanzioni, che di fatto stanno allungando i tempi per lo spegnimento delle fiamme.
Ma dando fuoco al gas la Russia non sta solo “bruciando” una quantità sproporzionata di soldi, ma sta anche provocando un gravissimo danno ambientale, che potrebbe avere un grande impatto sulla situazione climatica mondiale. Il flaring infatti produce il cosiddetto black-carbon, ossia la polvere di fuliggine, che accelera lo scioglimento di neve e ghiaccio, accelerando così il cambiamento climatico nelle regioni dell’emisfero settentrionale.
A questo punto ci si può domandare perché la Russia, anziché bruciare del prezioso gas naturale, non chiuda i pozzi. Semplicemente perché quella di chiudere i pozzi di estrazione è un’operazione rischiosissima, che se non venisse condotta nel migliore dei modi potrebbe rendere inutilizzabili per sempre i giacimenti, e che solo poche ditte specializzate al mondo sanno compiere. Peccato che tutte queste ditte occidentali, a causa delle sanzioni, abbiano già abbandonato da tempo il suolo russo.