L’Aquila. Quante volte, passando di fianco all’ex ospedale psichiatrico provinciale, abbiamo immaginato come potesse essere ai tempi del suo massimo splendore? Oggi possiamo vederlo attraverso un raro disegno, eseguito dall’artista Tortora nel 1908, che ci mostra la struttura dall’alto, come oggi si farebbe con un drone. In realtà, vista la data, si tratta forse più di un progetto che non di come poteva apparire realmente l’ex manicomio, poiché l’ospedale psichiatrico di Santa Maria di Collemaggio aprì i battenti nel 1915, dopo ben 13 anni di lavori.
Il manicomio sarebbe dovuto sorgere in un altro posto ma, dopo una delibera datata giugno 1903, sottoscritta anche da qualche eminente psichiatra, fu scelta l’area attuale dove, grazie all’aria salubre e alla tranquillità garantite da quell’incantevole collina, i pazienti avrebbero potuto curare meglio i loro problemi mentali.
Come si può notare dall’illustrazione si trattava di una struttura enorme: la sua estensione era di circa 150.000 metri quadrati di cui oltre 11.000 coperti. La struttura, nel tempo, arrivò ad ospitare fino a 1.300 folli provenienti da tutta la provincia dell’Aquila e nel convento di fianco la basilica, vi erano anche delle suore che gestivano un brefotrofio. Rispetto a strutture analoghe nate in tutta Europa dalla seconda metà del 1800, Collemaggio faceva parte di quei comprensori moderni pensati come delle vere e proprie micro-città che, impiegando i malati di mente nel lavoro manuale, ne avrebbero agevolato la guarigione.
I confini della collina, che in cima ospitava la basilica e il manicomio omonimi, erano circoscritti da mura possenti e difficilmente sormontabili. Il quartiere di Collemaggio godeva di una cattiva reputazione, in quanto quella zona, dove prosperavano prostituzione e delinquenza, veniva da anni considerata malfamata. L’ospedale era suddiviso in due macro aree: una zona cittadina e una agricola. Quella cittadina comprendeva tutti gli uffici, i servizi e gli alloggi, mentre quella agricola comprendeva serre, campi e allevamenti che aiutavano la struttura ad essere autosufficiente dal punto di vista dell’alimentazione, sia animale che vegetale.
Da quello che si può vedere nel disegno in prospettiva la struttura cittadina dell’ospedale richiama una moderna città. I padiglioni e le strade sono simmetrici, organizzati in modo da venire incontro a tre diverse categorie di malati. I padiglioni che si trovano nella parte anteriore erano riservati all’accettazione. Quelli subito dietro riguardano i pazienti tranquilli, poi i semi-agitati mentre i due successivi ospitavano i pazienti agitati, quelli ritenuti pericolosi per loro stessi e per gli altri. L’ultimo padiglione era quello riservato ai cosiddetti “sudici”, degenti che non era possibile in nessun modo far convivere con gli altri perché, oltre ad essere pericolosi e instabili mentalmente, erano difficili da gestire anche a livello igienico. I padiglioni in fila sul lato destro erano per le donne, mentre quelli sul lato sinistro per gli uomini.
Gli ospiti di Collemaggio oscillavano tra i mille e i milletrecento. All’interno della cittadella lavoravano circa quattrocento infermieri professionali e ventiquattro medici che con turni di otto ore al giorno, riuscivano a garantire il servizio anche nei giorni festivi. Ogni palazzina ospitava circa duecento malati di mente. Nei seminterrati c’era il refettorio, al piano terra la sala svago mentre al primo piano c’erano le stanze da letto dei pazienti. A parte la cucina, che era unica per l’intera struttura psichiatrica, ogni costruzione era autosufficiente e poteva essere considerata a tutti gli effetti come un ospedale completo.
All’esterno di ogni edificio c’era lo “svario”, un ampio giardino che serviva più che altro a far prendere un po’ d’aria ai pazienti. Tra il primo e il secondo donne vi era l’edificio che ospitava il bar, lo spaccio aziendale e la copisteria/rilegatoria dell’ospedale. Nella parte più alta della collina si può notare il serbatoio dell’acqua, mentre poco più giù la chiesa e la palazzina dei servizi, dove si trovavano la cucina, il forno e il lavatoio. Al centro si ergeva l’edificio direzionale, che con i suoi tre piani, era il più imponente dell’intero complesso.
La colonia agricola era particolarmente importante. I pazienti tranquilli impiegavano il loro tempo per coltivare i campi e allevare gli animali. Il lavoro manuale svolgeva due compiti essenziali: anzitutto teneva impegnate le menti dei malati e li gratificava una volta che ne vedevano i frutti, ma soprattutto il raccolto dei campi e degli allevamenti riforniva le cucine dell’ospedale di ortaggi, frutta, uova, latte e carni sempre fresche. Ma il vero fiore all’occhiello di Collemaggio erano i giardini. Il verde era presente dappertutto e vi era una cura e un’attenzione particolare per tutte le specie di piante. Esistevano delle vere e proprie squadre giardinieri che, aiutati dai pazienti meno agitati, giornalmente mantenevano in perfetto ordine tutto il verde del manicomio: oltre trenta specie di piante, tra cui cedri rarissimi, tigli secolari e persino delle sequoie, senza contare le decine di qualità diverse di rose, sparse tra i viali del manicomio, all’interno di giardini ordinati e curatissimi. Francesco Proia (autore del romanzo ambientato a Collemaggio “il nido della follia”)