Alla domanda “cosa ti fa paura?” che negli anni gli è stata rivolta spesso, Stephen King ha sempre risposto candidamente “Tutto mi fa paura”. Per questo, nella sua lunga e prolifica carriera come maestro della suspense e dell’horror, non ha fatto altro che raccontare quel tutto, le inquietudini, le paure e i demoni che erano prima di tutto suoi. Viceversa, guardare film e leggere libri dell’orrore consente alle persone di liberarsi delle proprie paure e in qualche modo sfogare la propria aggressività. Le emozioni positive che la società approva e incoraggia, l’amore l’amicizia il rispetto l’onore, hanno sempre un contraltare cupo e le storie di questo genere offrono la possibilità di esprimere quel lato di noi in modo relativamente innocuo, ci alleniamo al male restando incolumi. È anche un modo per prepararsi alla morte, disse una volta lo scrittore in un’intervista: siamo l’unica specie vivente che sa di dover morire, è una certezza, e per non impazzire all’idea che un giorno non ci saremo più dobbiamo fare qualcosa in questa vita, simulare la morte, farne esperienza.
Nel 1974 il mondo conosce Stephen King leggendo il suo primo romanzo “Carrie”, la storia di una ragazza insicura e sgraziata che semina il terrore al ballo di fine anno per vendicarsi della crudeltà dei suoi compagni di scuola. Attraverso la breccia aperta da Carrie, si è fatto avanti un branco di mostri guidati dall’anima tormentata dell’autore americano: un cane assetato di sangue (Cujo), uno scrittore fallito perseguitato da fantasmi rancorosi (Shining), un’automobile scintillante alimentata da crudeltà (Christine), un clown cannibale che attira i bambini nelle fogne spaventose (It). Da allora sono passati 50 anni e, attraverso innumerevoli opere e adattamenti cinematografici, Stephen King continua a celebrare il lato oscuro dell’umanità, a trasfigurare le nostre e le sue paure più profonde e anche a rispecchiare l’anima violenta dell’America: “c’è una cultura della violenza a cui appartengo” spiegò in un convegno, “una cultura differente dagli altri paesi anche europei, e questo dipende soprattutto dalla diversa accessibilità alle armi. Io faccio parte di questa cultura, non posso prescindere da questa formazione”. Non ha mai voluto lasciare il Maine, dove è nato e cresciuto, un po’ come William Faulkner che non ha mai abbandonato il Mississippi; “è un luogo in cui conosco tutti e in cui tutti mi conoscono, un mondo che posso descrivere perché lo sento mio”, un’America rurale in cui la gente lavora sodo, spesso povera, va avanti giorno per giorno con fatica e praticità.
L’idea che ogni scrittore possa parlare soltanto di quello che conosce non gli è mai piaciuta, “ciò che ho conosciuto o vissuto io è stato abbastanza noioso”, a cominciare dall’infanzia in un paesino dove non c’era neanche l’acqua corrente ed esisteva una scuola con una sola classe in cui insegnare ad allievi di età diverse. Da bambino, abbandonato dal padre a due anni, sognava invece una vita avventurosa, persino spericolata, così ha riversato quel desiderio nelle sue storie, l’interesse per tutto ciò che è strano, alieno e per il mondo moderno. Da adolescente divorava libri di fantascienza, fumetti dell’orrore, film di mostri e soprattutto amava le storie di Richard Matheson, una vera illuminazione per il suo spirito inquieto: gli ha insegnato che in fondo l’orrore può essere ovunque, anche in luoghi familiari come un supermercato o dietro l’angolo di una strada che percorri ogni giorno può succedere qualcosa di terribile.
“Credo che uno degli obiettivi di un racconto dell’orrore dovrebbe essere ricondurci nella condizione dell’infanzia, quando tutto sembra fuori controllo; i bambini sono flessibili, aprono la porta a nuove credenze e fantasie, credono a tutto. Da adulti dovremmo avere il controllo su ogni cosa eppure non sempre è così, con le mie favole nere torniamo nell’infanzia, è come se dicessi al mio lettore Guarda il bambino che è in te. Paghiamo un prezzo alto per diventare grandi, rinunciamo all’immaginazione, mentre il nostro corpo cresce la nostra fantasia diminuisce. I miei libri servono per far riavvicinare gli adulti a quel mondo onirico, spingono a sognare”.
E poco importa se i critici letterari bollano la sua come letteratura popolare, accessibile a tutti, con uno stile e una scrittura tendenti al basso. A Stephen King non interessa essere giudicato un romanziere popolare, che è il modo in cui vengono spesso definiti gli scrittori letti in tutto il mondo; l’aspetto fondamentale per lui è che i suoi libri abbiano un significato per chi legge, rappresentino un viaggio emotivo, coinvolgano, facciano piangere, ridere, che siano insomma un’esperienza che perdura. L’importante è leggere. Insegna a pensare, soprattutto. “La capacità di pensare lucidamente e in modo logico fa prendere decisioni giuste ed è legata alla capacità di leggere. La letteratura salva vite, rende possibile l’esistenza, la apre e la rende più ricca. Questo conta. Chi legge i miei libri ha la possibilità di fuggire dalla sua vita, salire sui miei treni fantasma e divertirsi”.