Sulmona. “Stamattina, nel mentre ero impegnato a radunare un po’ di appunti”, dichiara il segretario generale territoriale UIL PA Polizia Penitenziaria L’Aquila Mauro Nardella, “per via di un’intervista che avrei di lì a poco rilasciato ad una radio, ho ricevuto un messaggio da parte di un collega con il quale condivido quella che da molti, e a giusta ragione direi, è definita essere in assoluto la professione più delicata che ci sia nello scenario quanto meno della Pubblica Amministrazione”.
“Il contenuto del messaggio sembrava ricalcare il solito cliché. Quello, cioè, di un’ordinaria quanto drammatica giornata lavorativa vissuta all’interno di uno dei più massacranti carceri d’Italia. Giornata fatta di quotidiane minacce, spesso accompagnate da brutali eventi critici”. Continua Nardella.
“Nel mentre leggevo dell’ennesima minaccia perpetrata a danno di un poliziotto penitenziario, sempre più parafulmine di una politica penitenziaria allo sfascio, la mia attenzione veniva attirata da una serie di parole che no, non potevano passare inosservate.
Una sequela di frasi che mi hanno in sostanza fatto immergere in un’ emozionante sensazione che mai avrei immaginato una professione come quella da me svolta mi potesse fare provare.
Una messaggio che racconta dell’aiuto offerto ad un giovane agente, tirato fuori da un pericoloso momento, da un veterano Assistente capo coordinatore.
Il racconto di una storia di quotidiana follia vissuta dall’ “acerbo” agente, tra i più giovani in servizio nel carcere e culminata in un epiteto proferito dal detenuto riottoso di turno del tipo” apri sta cazzo di cella, pezzo di merda sennò ti spacco la testa!!!”;
Un periodo incastonante una serie di frasi che lascio ai lettori condividerne l’emozionante contenuto:
” Mauro..il collega mi ha ringraziato più volte. Non sai quanto mi è dispiaciuto assistere a queste cose…mi è sembrato di rivivere i tempi in cui ero giovane di servizio.
I nostri giovani colleghi li vedo come dei figli più che colleghi e mi dispiace veramente che debbano lavorare sempre con la speranza che non gli succeda nulla in questo mix di cose che non vanno!…”
D’altronde come non essere d’accordo con quanto scritto dal mio coetaneo collega? Anch’io, come lui alla luce dei miei quasi trent’anni di servizio passati nelle patrie galere italiane non potrei che inquadrarli come dei figli le giovani leve che, seppur nel loro iniziale smarrimento, dovranno trovare la forza per affrontarlo come si deve il lavoro del poliziotto penitenziario.
Una professione, però, che la vedo, alla luce di mancati interventi posti a loro protezione, sempre più difficile e complicata da affrontare.
Ma tant’è. Volendo o nolendo tutti i poliziotti penitenziari, per 35 anni vivranno da dietro le sbarre il passaggio temporale che professionalmente parlando da figli li porterà ad divenire padri e, chissà, messi nelle condizioni così come è successo a me di versare lacrime quando a produrle è il triste racconto della quotidianità carceraria”. Conclude Nardella.