Oggi ricorrono i 200 anni dalla nascita di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, che nasce l’11 novembre del 1821 a Mosca e muore 60 anni dopo a San Pietroburgo. “La sofferenza. Questa è l’unica causa della consapevolezza”: in questa convinzione è racchiusa la vicenda umana e artistica del grande scrittore russo, per cui l’intreccio tra vita e letteratura è potente e indissolubile.
Per Freud il suo posto è al vertice della letteratura universale e I fratelli Karamazov “il romanzo più grandioso che sia mai stato scritto”, insieme all’Amleto di Shakespeare e all’Edipo re di Sofocle. È naturale che Freud celebri tre storie che trattano del parricidio, ma ciò che interessa è la spiegazione che il padre della psicanalisi dà della psiche di Dostoevskij, i cui tormenti trovavano sfogo nel corpo attraverso l’epilessia. Lo stesso scrittore si definì epilettico in base ad attacchi contraddistinti da perdita di coscienza, spasmi muscolari e successiva depressione; aveva una forte pulsione autodistruttiva che si esprimeva attraverso forme di masochismo e sensi di colpa.
Freud distingue l’epilessia organica, una vera malattia del cervello, da una epilessia affettiva, che è propria di Dostoevskij, cioè un disturbo della psiche che si può far risalire all’infanzia e al rapporto con un padre violento, autoritario, crudele. L’odio verso il genitore è potente così come il desiderio della sua morte, e quando il padre muore davvero, ucciso dai suoi contadini, lo scrittore ha il primo di una lunga serie di attacchi che lo tormenteranno tutta la vita. Non è un caso che quando verrà deportato in Siberia, anni di umiliazioni e miseria, non ne soffrirà mai: è come se, già punito dallo zar – una sorta di grande padre – non ha bisogno di castigarsi. Quando invece conduce una vita normale, l’epilessia ritorna. Sappiamo, anche da quello che raccontava la moglie, che il processo creativo seguiva le sue fasi di crisi: giocava sempre e tanto finché non perdeva tutto, contraeva debiti, riduceva lui e la moglie a ipotecare ogni bene e a non sapere come andare avanti, eppure dopo quella distruzione iniziava a scrivere. Placato il senso di colpa, il demone abbandonava la sua anima e lasciava il posto al genio creativo.
Dostoevskij avrebbe scritto ugualmente i suoi più grandi capolavori se non avesse convissuto con i suoi tormenti? Se il padre non fosse stato dispotico e crudele? Se non avesse dovuto affrontare il terribile esilio in Siberia? Molto probabilmente ne avrebbe scritti altri, differenti; eppure l’interesse per un’umanità infelice e per l’animo umano è presente fin dagli esordi. Quando Dostoevskij pubblica “Povera gente”, nel 1846, ha venticinque anni e ha appena abbandonato la carriera militare per dedicarsi alla letteratura. L’esordio ha un successo clamoroso. Seguiranno il romanzo breve “Il sosia”, un altro romanzo e racconti su riviste e giornali (tra cui il celebre “Le notti bianche”).
In questi anni Dostoevskij si avvicina al circolo di Petrasevskij, un giurista socialista. Il gruppo, che si riunisce per discutere di politica e socialismo ogni venerdì, viene arrestato nel 1849 con l’accusa di cospirare contro lo zar, stampare testi clandestinamente e leggere testi censurati. Lo zar Nicola I elabora uno scherzo spietato: una finta condanna a morte. Dopo mesi di processo, Dostoevskij e gli altri membri del circolo sono condannati alla fucilazione, una pena spropositata rispetto alla colpa. I condannati vengono portati davanti al plotone d’esecuzione, il primo gruppo è bendato mentre il secondo, in cui si trova lo scrittore, è lì che guarda e aspetta il proprio turno; ma all’ultimo momento un messaggero comunica che la pena di morte è commutata nell’esilio in Siberia.
Dostoevskij viene imprigionato nella fortezza di Omsk, dove resta per quattro anni; nelle lettere al fratello scrive del caldo soffocante d’estate e del freddo intollerabile in inverno, racconta che dormono su nude assi, tra pulci pidocchi e scarafaggi, in un fetore insopportabile e tanta sporcizia sul pavimento da renderlo scivoloso. Il gelo lo fa tremare ogni notte. Quando lo inviano, per buona condotta, a Semipalatinsk in arruolamento forzato, Dostoevskij è trasformato: cupo, emaciato, sporco; uno dei più brillanti giovani intellettuali russi non riesce quasi più a parlare. Lo salverà l’amicizia con un giovane procuratore appena ventenne, il barone Alexander von Wrangel, con cui condividerà l’interesse maturato per i delitti, i processi e il sistema giudiziario, che lo spinge persino a intervistare assassini e condannati. Gli spunti e le riflessioni che ne derivano finiranno più tardi in uno dei suoi capolavori, “Delitto e castigo”: pubblicato nel 1866, è il resoconto psicologico di un crimine sullo sfondo della Pietroburgo dei miserabili, dei disadattati e dei falliti. Lo studente Raskol’nikov, per liberarsi da una miseria opprimente, non esita a uccidere una vecchia usuraia e sua sorella, per poi derubarle.
In questi anni scrive gli altri suoi romanzi più famosi: “L’idiota”, con un protagonista che soffre di epilessia come lui, e “I demoni”. Ma il successo letterario non garantisce il benessere economico, anzi: sommerso di debiti, Dostoevskij viaggia in Europa per scappare dai suoi creditori, rompe amicizie, si dà al gioco. Unica a restare al suo fianco è Anna, sua seconda moglie e suo secondo grande amore. Il primo risale alla Siberia, si chiama Marija, è una donna capricciosa, instabile, e durante la prima notte di nozze fugge via incapace di accudire lo scrittore in preda a un attacco epilettico. Ma non si separeranno mai, legati fino alla morte di lei. Ad aiutare Dostoevskij sarà Anna, una stenografa che lo aiuta a portare a termine “Il giocatore”, romanzo semi-autobiografico scritto in fretta per saldare debiti contratti giocando.
I personaggi che vibrano tra le pagine di “Delitto e castigo”, “L’idiota”, “I demoni”, “L’adolescente”, “I fratelli Karamazov”, tendono alla redenzione attraverso il peccato e il male, un’esperienza sofferta che permette di capire e pentirsi, e mostrano la duplicità della natura umana, bestiale e angelica al tempo stesso. L’intreccio continuo di vita e letteratura si mantiene inscindibile fino alla fine; non è un caso che “I fratelli Karamazov”, l’ultimo romanzo, il più consistente e filosofico, torni alla radice delle cose: dopo l’esilio, la pena, le fughe, l’amore, di nuovo compare il primo grande turbamento di Dostoevskij, la morte del padre.