Siamo le nostre radici e la nostra storia. Un terreno comune e una memoria collettiva che non dobbiamo dimenticare. Ieri come oggi l’Abruzzo vive nei romanzi, nelle storie e nelle opere d’arte di artisti che hanno dato prestigio alla nostra terra e offerto un contributo fondamentale alla cultura in Italia; l’Abruzzo inteso come terra e insieme sentimento, una realtà geografica storica e culturale e al tempo stesso uno stato mentale ed emotivo.
Alcuni scrittori, differenti tra loro, sono accumunati dall’aver lasciato la terra natia trovando successo e vita altrove, mantenendo però intatto il ricordo dell’Abruzzo, un bagaglio prezioso che spesso rivive nei loro scritti. Molti sono legati da questo doppio filo: nostalgia e spirito libero, personalità spiccata e insieme amore per le origini. Mario Pomilio, Ennio Flaiano, Ignazio Silone: tutti e tre, per motivi diversi, hanno lasciato la loro terra conservando un ricordo vivo, nostalgico e intenso delle proprie radici.
Mario Pomilio, di cui ricorrono quest’anno i cento anni dalla nascita, era un uomo garbato, inquieto, una grande anima abruzzese, sensibile e cordiale. Un intellettuale che sfugge a facili definizioni e che racchiude nelle sue opere la complessità, le contraddizioni e le inquietudini del Novecento. È nato a Orsogna, poi si è trasferito ad Avezzano, ha viaggiato e studiato sia in Italia che all’estero e gran parte della vita l’ha vissuta a Napoli come insegnante di letteratura. Geograficamente si è sempre sentito uno sradicato, eppure l’Abruzzo è stato parte integrante della sua storia personale: “Ho pensato al Fucino come a una specie di scuola, per quel che mi ha insegnato, per come mi ha rovesciato problematiche e prospettive: una scuola nel senso del sociale, ma anche nel senso dell’umiltà. Vi ho appreso un linguaggio, vi ho capito sentimenti, ho potuto spogliarmi di almeno una parte della mia crosta di giovane intellettuale”.
Ennio Flaiano, sceneggiatore, giornalista, scrittore, umorista, drammaturgo, vincitore nel 1947 del primo Premio Strega con il romanzo “Tempo di uccidere”, si è sempre sentito nel profondo un abruzzese, orgoglioso di radici che gli scorrevano nel sangue. Era nato a Pescara, a poche decine di metri dalla casa di Gabriele D’Annunzio, ma a diciotto anni si trovava già a Roma, emigrante intellettuale senza neanche la speranza di poter tornare indietro. Famose e intense le parole che scrisse in una lettera all’amico Scarpitti: “Tra i dati positivi della mia eredità abruzzese metto la tolleranza, la pietà cristiana, la benevolenza dell’umore, la semplicità, la franchezza nelle amicizie. Quel senso ospitale che è in noi, un po’ dovuto alla conformazione di una terra isolata, diciamo addirittura un’isola, un’isola schiacciata tra un mare esemplare e due montagne che non è possibile ignorare, monumentali e libere: se ci pensi bene, il Gran Sasso e la Majella sono le nostre basiliche, che si fronteggiano in un dialogo molto riuscito e complementare. Tra i dati negativi della stessa eredità: il sentimento che tutto è vanità, ed è quindi inutile portare a termine le cose, inutile far valere i propri diritti; e tutto ciò misto a un senso profondo della giustizia e della grazia, a un’accettazione della vita come preludio alla sola cosa certa, la morte: da qui il disordine quotidiano, l’indecisione. Bisogna prenderci come siamo, gente rimasta di confine…”
Nostalgia della propria terra e libertà di pensiero li ritroviamo anche nell’altro grande abruzzese, Ignazio Silone, che rimase fedele per tutta la vita ai luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, la Marsica il Fucino l’Abruzzo, nonostante avesse dovuto abbandonarli appena ragazzo, colpito da lutti familiari e privato della casa e dei beni materiali a causa del violento terremoto del 1915. “Tutto quello che m’è avvenuto di scrivere, e probabilmente tutto quello che ancora scriverò, benché io abbia viaggiato e vissuto a lungo all’estero, si riferisce unicamente a quella parte della contrada che con lo sguardo si poteva abbracciare dalla casa in cui nacqui”. Le sue opere raccontano e denunciano l’immobilismo della civiltà meridionale, l’abbandono delle classi povere da parte dello Stato e l’oppressione dei padroni sui poveri contadini, chiamati con disprezzo “cafoni” perché quando indossavano i pantaloni, non potendosi permettere una cinta, erano costretti a usare una fune (“ca fune”).
Ha perseguito tutta la vita i valori di giustizia, onestà, verità, rispetto per tutti, specialmente per i deboli; è sempre rimasto un difensore della libertà e un credente nella liberazione della povera gente dalla miseria e dalle vessazioni dei potenti. Intendeva la scrittura come lotta e la libertà come possibilità di dubitare, sbagliare, sperimentare, dire no a qualsiasi autorità, artistica filosofica religiosa e anche politica. Si sentiva profondamente abruzzese, riconoscendo nel suo carattere la storia oscura e penosa di un ambiente naturale quanto mai aspro, tra i più tormentati dal clima, dalle alluvioni, dai terremoti. Diceva che il carattere degli abruzzesi è portato a resistere al dolore, alla delusione, alla disgrazia, ad accettare la “croce” come elemento inscindibile della condizione umana. “Mi piacerebbe di esser sepolto così, ai piedi del vecchio campanile di San Berardo, a Pescina, con una croce di ferro appoggiata al muro e la vista del Fucino, in lontananza”.
Insomma, abruzzesi nel cuore e universali nelle opere, narratori della loro epoca eppure eterni nelle storie e nel valore dato alla cultura di un intero paese. Ed è questo il senso della grande Letteratura.