L’Aquila. Successo di critica e pubblico per il concerto inaugurale del nuovo cartellone dell’Opera di Tirana,
che ha proposto in un teatro sold out due partiture inusuali per l’apertura della stagione la Fantasia Corale Schmeichelnd hold in do minore, op. 80 e la Messa di Requiem K626 le pagine scelte dalla Sovrintendente dell’Opera Nazionale d’Albania Abigeila Voshtina e dal suo direttore artistico Jacopo Sipari di Pescasseroli, che ha diretto le due gemme musicali Scelta non di facile lettura quella fatta per il pubblico della serata inaugurale della nuova stagione dell’ Opera di Tirana dal sovrintendente Abigeila Voshtina e dal direttore artistico Jacopo Sipari di
Pescasseroli: la Fantasia Corale Schmeichelnd hold in do minore, op. 80 di Ludwig van Beethoven e la Messa di Requiem in Re minore K 626 di Wolfgang Amadeus Mozart.
In pochi anni le guerre hanno cancellato secoli di cultura e di storia che erano parte del nostro bagaglio culturale, anche di noi italiani affacciati su quel mare che da sempre è stato punto di incontro tra Europa e tutti gli altri mondi, una perdita che ha creato un solco profondo fra queste culture che, oggi, sembra non riescano più a dialogare. Quella delle arti, della musica, del teatro è un’utopia necessaria: Adonis, il poeta siriano scrive: “Verrà un tempo tra la cenere e la rosa/ si estinguerà ogni cosa/ rinascerà ogni cosa/ pace alla rosa delle tenebre e della sabbia”. Ecco che l’opera albanese ha voluto mettere in attenzione da subito l’uditorio, con due opere legate da un nodo d’amore, un messaggio di speranza di potere umanamente, da un palcoscenico, con le nostre povere utopie, provare a cambiare lo stato delle cose. Brano inaugurale la Fantasia Corale Schmeichelnd hold in do minore, op. 80 di Ludwig van Beethoven con solisti Dorina Selimaj, Ivana Hoxha, Matias Xheli, Artur Vera e Bledar Domi e al pianoforte Ivo Gjika. Il direttore Jacopo Sipari, alla testa della sua orchestra, non si è fatto indietro rispetto al corruccio non semplice del classico. Poche battute iniziali per intendere che il Beethoven del direttore avrebbe posseduto una inequivocabile, oggettiva verità: sparita la bacchetta, sparita l’orchestra medesima, con i solisti, sarebbe restata in vita la metafisica sostanza della musica. Il suono, cioè la tangibile presenza del genio di Bonn, con le sue passioni lacerate, la dolcezza delle sue nostalgie, la veggenza della sua mente, sul punto di disfarsi per ricomporsi in altro orizzonte l’ “altrove” che in questo contesto vale come una lusinga di salvezza e speranza. Applausi per il pianista Ivo Gjika nella cui interpretazione si è avvertita l’intenzione di realizzare una intimità coesiva, coagulata in profondo, nel gioco di un climax, parso sfociare nel cuore shakespeariano “Se musica è nutrimento d’amore, continuate a suonare” (da Twelfth Night, or What you Will).
Capita che talvolta ascoltando un’opera di Mozart ci impigliamo in questioni che esorbitano dal contesto, specialmente nel misterioso Requiem e vedere anche alcuni direttori e, purtroppo, con sempre maggiore frequenza, salire su podi e cattedre senza alcuna consapevolezza di quanto sia scritto in partitura, si fanno in quattro per farti avvertire, in ogni battuta, l’ala della morte, il crepitio delle fiamme d’inferno, e quant’altro di simile. Ma Mozart esprime in tutta la sua produzione l’inferno ed insieme il paradiso, senza mai dimenticare il teatro. Mozart non privilegia l’una faccia o l’altra, non scioglie i propri enigmi, per quindi prendere di petto uno stato di realtà e renderlo significante secondo un molteplice spettro di valori. Il M° Jacopo Sipari di Pescasseroli,
attraverso quel puro istinto direttoriale che possiede, da quel che abbiamo potuto ascoltare, ha scelto la via maestra, forte delle voci esperte, armoniose di Eva Golemi, Matias Xheli, Vikena Kamenica e Bledar Domi, con cambio per la replica del giorno successivo, del soprano, Renisa Laçka e del mezzosoprano Ivana Hoxha, di un coro agli ordini, con una menzione particolare per le corde femminili, preparato da Ditran Lumshi, orchestra al ritorno in teatro, ma già in buono spolvero, ed ecco che il Requiem, quale il maestro ha trasformato in suo occhio per scrutare l’insieme mozartiano, da una parte angelico, dall’altro demoniaco, che non cessa mai di essere inquietante, quasi una grande gigantomachia degli opposti, “il grande paradosso dell’incondizionato” che ritroviamo nel Kant della “Critica del giudizio”, pubblicato giusto l’anno precedente la composizione della Messa K626. Vertice commotivo certamente il Lacrymosa, che ha portato tutti ad una visione mediata e interiorizzata dell’intera opera. Il maestro ha ingabbiato poi, ogni mera esaltazione dell’ individualismo dei solisti, a cui diversi numeri avrebbero potuto portare, aprendosi, invece ad una visione più ampia, senza mai perdersi in un descrittivismo eccessivamente minuzioso, con allargamenti di tempo particolarmente enfatici, o, al contrario, con
soluzioni volutamente precipitose. C’è sempre un istante in cui il desiderio di vivere è più forte di qualsiasi rassegnazione filosofica, e non dovrà essere considerata un’esagerazione se si legge questo significato, in un’opera scritta nelle ultime settimane dell’attività creativa di Mozart.
Il Maestro è riuscito a raggiungere quell’equilibrio tra chiarezza e continuità, rendendo la partitura un canto senza fine, non il prolungarsi di un’unica idea, ma una serie di melodie che scorrono l’una nell’altra, senza sosta. Le voci hanno dato all’esile “Voca me”, all’implorazione tutta femminile di essere accolto tra le anime elette una luce diafana. La ricerca ossessiva del pianissimo e del complesso sonoro e avvolgente, ha liberato quel soffio d’eternità, ove cadono i desideri e i timori e resta solo un’oscura intuizione dei misteri divini, che è l’essenza del requiem mozartiano. E’ in questo numero che il Maestro Sipari è riuscito ad esprimere tutto se stesso, “credendo” in questo messaggio e usando la sua bacchetta in difesa della bellezza, abbandonandosi ad essa, fiducioso nelle sue ragioni, di pagina scritta, così com’è scritta, tendendo all’ineffabile in musica con il finale, dopo aver traversato gli abissi del proprio e del nostro essere, il suo vissuto, il tempo-interiore e il tempo-spazio, che sono alla base del fluxus musicale mozartiano plasmato attraverso la sua opera, giunto senza rughe sino al nostro tempo: i fogli, solo a vette per noi inaccessibili, divengono contenitori di suoni.