Siamo nel 1809. In un villaggio ucraino alle periferie dell’impero nasce Nicolaj Vasil´evič Gogol’ da genitori proprietari terrieri che gli trasmettono un grande amore per la terra, per le tradizioni folkloriche, per la memoria popolare; il padre è anche autore di commedie ucraine. Gogol’ cresce in questo mondo calmo, silenzioso, un po’ fuori dal tempo, e quando si trasferisce nella grande città, Pietroburgo, si trova ad affrontare una realtà totalmente diversa, fatta di burocrazia e meschinità, di rivalità e ambizioni, di ipocrisie e indifferenza; un ambiente che lo disorienta e che si scontra con il suo bisogno di semplicità, di un certo spiritualismo, di autenticità. Viene assunto come professore di storia all’università, ma l’esperienza si rivela presto un insuccesso: sembra che riesca a essere creativo solo nell’arte, quando invece deve spiegare e insegnare perde la sua verve e diventa morboso, pedante; gli alunni lo trovano persino noioso.
Lo stesso Nabokov lo descrive goffo in società, un po’ disadattato, una genialità che viene fuori solo quando si lascia sprofondare nel suo abisso personale ma sembra sparire ogni volta che prova a spiegare razionalmente i suoi scritti, quando vuole pianificare a tutti i costi opere che migliorino gli uomini, quando smania di scrivere la storia più importante e innovatrice della letteratura russa. È ossessionato dal giudizio dei suoi contemporanei, vuole ammaestrarlo, cerca approvazione, ma sente di non riuscirci così impazzisce dietro quello che per lui è un brusio indistinto di critiche alle sue spalle.
Ha capelli lunghi e lisci, baffi sottili e neri, un’espressione tormentata nello sguardo e un naso grande e appuntito, la sua ossessione, un elemento ricorrente e assillante nella vita come nella scrittura, tanto che a soli venti anni scrive un racconto che è un piccolo gioiello di inventiva e originalità intitolato appunto “Il naso”: narra le incredibili vicende di un naso scomparso dal viso del suo padrone, che vaga in alta uniforme per le strade di San Pietroburgo nello sgomento generale. Con ironia, Gogol’ accompagna i lettori su e giù per la Prospettiva Nevskij a inseguire il Naso e il suo disperato padrone e al tempo stesso osserva le ingiustizie, i soprusi, il servilismo imperante e i rituali di una piccola borghesia ignorante e presuntuosa. Un vero capolavoro per la ricchezza dell’immaginazione, per un linguaggio pieno di ritmo e di effetti acustici, per l’aspetto visionario e grottesco e per una carica surreale che rimane il suo tratto distintivo e che tanto ha influenzato gli scrittori successivi, lo stesso Kafka ne è in qualche modo l’erede. Eppure è stato riscritto più volte e più volte censurato perché ritenuto brutto e triviale, poi pubblicato con il sostegno dell’amico Puškin.
Il carattere ironico e insieme realistico dei racconti, immersi nella mediocrità della Russia contemporanea, diventa satira pungente nella commedia “L’ispettore generale”, messa in scena a Pietroburgo nel 1836, una rappresentazione grottesca della burocrazia che suscita molte polemiche nell’opinione pubblica. Gogol’ ne rimane così amareggiato da decidere di partire per un lungo viaggio attraverso l’Europa; si ferma a Roma per un lungo periodo e qui porta avanti il romanzo che secondo lui lo avrebbe consacrato come pioniere della nuova letteratura russa, una sorta di poema dantesco moderno calato nella Russia provinciale: “Le anime morte”. Come tante altre, anche quest’opera subisce modifiche e tagli da parte della censura zarista, a partire già dal titolo che all’inizio fu cambiato in “I viaggi di Cicikov” perché la chiesa ammonisce che le anime sono immortali e non si possono definire morte. Quando riceve una lettera spietata dal critico Belinskij che gli rinfaccia di essersi rincretinito dietro alle frottole del cristianesimo, dell’individualismo, dell’uomo alla ricerca di una propria spiritualità, Gogol’ rimane così male da bruciare la seconda e la terza parte del romanzo. Il suo servitore racconterà che si fece il segno della croce, tornò nella sua stanza, si stese sul divano e si mise a piangere.
Nel 1842 pubblica il racconto “Il cappotto”, definito da Nabokov un incubo grottesco e cupo che apre buchi neri nell’incerto disegno della vita. Come è per tutte le trame delle storie di Gogol, anche questa si può riassumere in poche parole: un povero e modesto impiegato della cancelleria dopo tanti sacrifici riesce a comprare un cappotto nuovo, ma la prima volta che esce di sera per una serata tra colleghi viene derubato del prezioso indumento, muore e si trasforma in fantasma per tormentare i passanti lungo le vie di San Pietroburgo. Una piccola trama che diventa un gioiello assoluto di umorismo, di intelligenza e di realismo, una storia di una profondità e acume straordinari. Gogol’ sbeffeggia col sorriso tutti gli strati della società, corrotta e patetica, e lo fa con un’ironia che è al tempo stesso scavo psicologico, “ché l’ironia è supremo esercizio dell’intelletto, strumento di ribaltamento prospettico e pertanto disvelatore dell’animo umano”.
Tanto geniale nelle opere, quanto fragile e tormentato nella vita, Gogol’ non riuscirà mai a trovare un equilibrio tra il desiderio mistico di connessione e comprensione dell’altro e della società e il suo bisogno di criticarne le contraddizioni e le bassezze, tra le sue aspirazioni e la vita reale. Crisi frequenti lo portano a lunghi periodi di digiuno alla continua ricerca di quella angosciante purificazione interiore. I medici lo curano con salassi e purghe, accelerando però lo spegnersi di un organismo già debilitato dalla malnutrizione. Vi è qualcosa di terribilmente simbolico nella mesta scena dei futili tentativi di Gogol’ di liberarsi delle viscide sanguisughe che in ospedale gli hanno messo sul naso. Ha una vera fobia di quegli animaletti viscidi, striscianti, ed è il suo dramma morire con quei grumi di vermi neri attaccati alle narici. La scuola dei grandi medici russi non c’è ancora, spiega Nabokov, sono generici e incapaci quelli che assistono il povero Gogol’, gli stessi che avevano curato Puškin con una pallottola nello stomaco come se fosse un bambino costipato.
Gogol’ muore nel 1852 a poco più di 40 anni. Il suo sogno era di lasciare un segno nella letteratura e, senza saperlo, non solo lo ha lasciato indelebile, ma ha posto le basi del racconto e del romanzo moderno. Lo stesso Dostoevskij disse “Noi siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol” perché in questa novella “ogni vero scrittore russo poté sentire qualcosa di atavico, vi si riconobbe e la amò con rispetto filiale”.