Pavia. Chiara Poggi uccisa con più armi e da più persone? È un’ipotesi che si sta facendo strada in questi giorni sui mass media, sempre impegnati a seguire gli sviluppi della nuova indagine sull’omicidio avvenuto a Garlasco il 13 agosto 2007 e, talvolta, a “crearli”.
Per quanto riguarda il possibile impiego, nel corso dell’iter criminis, di differenti modalità di aggressione, se ne parla fin dall’epoca del delitto: nel referto autoptico depositato il 5 novembre 2007, si menzionano, tra l’altro, ferite da arma da taglio e lesioni compatibili con pugni: elementi che, considera il Giornale, almeno in parte smentirebbero la ricostruzione ufficiale degli eventi.
Lo stesso quotidiano asserisce che da tale premessa scaturirebbe, “per logica conseguenza”, la presenza di più di una persona nella villetta dei Poggi. Non necessariamente, in realtà: comprendiamo l’esigenza di tentare valutazioni che si mantengano coerenti con il fatto che la Procura stia indagando su un omicidio commesso “in concorso” ma, in linea teorica, la dinamica del delitto potrebbe essere stata caratterizzata da un iter complesso e problematico, che abbia richiesto a un solo offender – uomo o donna – il ricorso a differenti modalità di aggressione.
Perché colpire la vittima agli occhi?
Certo, il fatto che l’indagine non sia approdata al rinvenimento dell’arma (o delle armi) del delitto, rende più arduo proporre una ricostruzione conclusiva delle modalità dell’attacco. Nella relazione del medico legale di allora si legge che “ove non si voglia ipotizzare l’impiego di più strumenti, si deve altresì riconoscere che lo strumento in discussione è stato talvolta impiegato in modo non contusivo.”
L’elaborato si riferisce, in particolare, alle ferite da taglio riscontrate sulle palpebre superiori della vittima, “una per lato, prevalentemente trasverse, che evocano una superficiale violenza con un mezzo dotato di un filo piuttosto tagliente e/o di una punta acuminata che abbia superficialmente strisciato sul tegumento palpebrale.”
Ferite non mortali ma, proprio per questo, forse rilevanti dal punto di vista criminologico: perché colpire la vittima agli occhi? Si riscontrano, inoltre, ecchimosi in “in regione peri-orbitale” (area anatomica che circonda l’orbita oculare), che potrebbero essere state inflitte “da azioni violente esercitate mediante l’utilizzo di messi contundenti naturali (pugni).”
Fin troppo facile collocare queste lesioni nell’ambito di quella categoria che i criminal profilers dell’F.B.I. definiscono “personation”: un atto o un insieme di atti che, in sede di attuazione di un crimine violento, non risultano strettamente necessari a procurare la morte e rendono originale e unica la condotta. Potrebbero evocare le fantasie dell’aggressore, tradire uno stretto rapporto con la vittima o un particolare coinvolgimento emotivo.
In questo caso, il fatto di aver colpito gli occhi della vittima si potrebbe leggere come la volontà, più o meno inconscia, dell’assassino di annullarne lo sguardo. Che l’offender abbia agito per tacitare Chiara, per impedirle di guardare, di conoscere, di valutare negativamente qualcosa o qualcuno? Si tratta di congetture, ovvio: ma è quanto le risultanze disponibili, rilette alla luce delle categorie interpretative del profilo criminologico, portano a ipotizzare. Chi poteva sentirsi osservato, giudicato in termini critici dalla giovane uccisa?
A proposito dell’arma del delitto, si legge ancora nel referto: “il corpo contundente reiteratamente impiegato non sembra ascrivibile a uno strumento usuale di facile identificabilità. Esso, peraltro, sembra dotato delle seguenti caratteristiche: stretta superficie battente; linearità dei margini; presenza di punta impiegabile di per sé.” Dalla morfologia delle ferite osservate non sarebbe dunque stato possibile individuare con certezza l’arma utilizzata, dall’assassino o dagli assassini.
“L’unico modo per riaprire l’indagine”
Non persuaso dello scenario che vede presenti più persone a casa Poggi la mattina del delitto, l’avvocato Massimo Lovati, uno dei difensori dell’attuale indagato, Andrea Sempio. “Il fatto è chiaro, il fatto è compiuto da una persona, tant’è che ci sono le impronte di una persona”, ha dichiarato nel corso di una puntata della trasmissione Quarto grado. “Perché oggi la Procura della Repubblica di Pavia parla di concorso? Perché era l’unico modo per riaprire l’indagine, perché non possono rifare il processo di Alberto Stasi.”
“Per sette anni si è parlato di omicidio volontario”, sono ancora le parole di Lovati. “Centinaia di magistrati, Pg, Pm eccetera hanno ritenuto che si trattasse di omicidio volontario. Non potevano riaprire un’indagine. Non sta in piedi, questa è la giustizia del diavolo, non è la giustizia della verità. Crea un capo d’accusa senza fondamento e poi cerca di trovare elementi surrettizi andando a far finta di cercare i complici.”
L’incubo dell’avvocato Lovati
Lo stesso avvocato, nel corso della trasmissione di Rete 4, ha poi dichiarato: “Ho avuto un incubo, nel ‘Fruttolo’ c’è il Dna di Andrea Sempio.”
Il riferimento è al vasetto di yogurt rinvenuto sulla scena del crimine, uno dei reperti che costituiranno oggetto di esame nel corso dell’incidente probatorio che prenderà avvio il 17 giugno.
“È stato solo un incubo, poi ognuno può interpretarlo come crede”, ha aggiunto Lovati, che già in precedenza aveva attinto al suo universo onirico per formulare valutazioni sui possibili scenari investigativi sottesi all’omicidio. Nelle scorse settimane, aveva condiviso un suo “sogno” relativo alla possibilità che Chiara Poggi fosse stata uccisa da un sicario incaricato di impedirle di riferire quanto da lei ipoteticamente scoperto circa un giro di pedofilia nella zona di Garlasco.
Vedremo se, nei prossimi giorni, verrà effettivamente alla luce una traccia genetica decisiva, mai prima analizzata, e come tale, inatteso ritrovamento a diciotto anni dai primi accertamenti dovrà effettivamente interpretarsi.