Pescasseroli. Ermonela Jaho con la Kosovo Philarmonic Orchestra, diretta da Jacopo Sipari di Pescasseroli, sarà assoluta protagonista del Gala che si svolgerà domenica 8 giugno nella piazza Skënderbeu di Pristina, alle ore 20,30, il cui titolo recita “All the love of the world”, una parola quel “love”, a cui daremo infinite declinazioni, proprio attraverso il simbolo iridescente della musica. “Per me tornare nella mia terra, tra Albania e Kosovo – ha rivelato Ermonela Jaho– ed esibirsi qui è un’emozione grande, molto particolare, raddoppiata dal ritrovare e “fare” musica col Maestro Jacopo Sipari.
Non trovo le parole, lo ascolterete, posso dire, senza esagerare, di “vedere” la mia anima allo specchio, un’esperienza spirituale, ai limiti dell’ineffabile. Il lavoro di concertazione che ha fatto il Maestro Sipari con la Kosovo Philarmonic Orchestra è stato fantastico, unitamente alla konzertmeister Abigeila Voshtina, un trio, il nostro per il quale è possibile spendere l’aggettivo empatico. Riguardo il programma, porta la firma e la creatività di Jacopo Sipari, composto dalle pagine che meglio mi rappresentano, sicuramente una sfida per me, l’orchestra, tutti. La formazione accoglie, poi, diversi strumentisti italiani e per me l’Italia è una seconda patria, poiché vi ho vissuto lo stesso numero di anni che ho trascorso in Albania. Ho lasciato la mia terra a diciotto anni e sono venuta a studiare nella culla del canto e dell’opera lirica e avere in orchestra dei musicisti italiani, di questa grande, fa di questa reunion in terra kosovana, un qualcosa di ancora più speciale, perché quando si suona e si canta il melodramma, lo si fa in italiano e sarà un’interpretazione all’ “italiana”(ovvero con attenzione al bel suono e “sulla parola”, per avvicinare quella funzione catartica, connettere le anime e cantare i sentimenti (ndr).
Desidero aggiungere che questo momento musicale sarà anche un intenso scambio culturale, poiché la musica getta ponti che non si interrompono e si rafforzano proprio con l’ascoltarsi tra diverse generazioni, persone di lingue e razze diverse, e quindi la percezione stessa dell’idea del pubblico, un grande esempio, nel segno universale della musica, per l’umanità dal palco kosovano, in questo momento oscuro, di guerra. Parlando in italiano, attraverso il Maestro Sipari, questo appuntamento sarà la synthesis della strada che ho percorso fino ad oggi. Confessare di essere felice in questo momento, significa sminuirlo con altri aggettivi non all’altezza di descriverlo e il mio desiderio è di riuscire bissare all’infinito questo concerto col Maestro Sipari, la cui caratteristica è proprio la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo e nella situazione emozionale di chi ha vicino per creare un ideale ponte di note, e con questa orchestra che raccoglie in sé l’essenza e il sentire di diversi popoli e tradizioni musicali. Il programma è una carrellata delle eroine a me care, Liù, Desdemona, Suor Angelica, Adriana, Manon, Cio-Cio-San e Violetta. Spero vivamente di render loro giustizia, poiché rappresentano ciò che ho imparato in Italia”. La Kosovo Philarmonic Orchestra, grazie al progetto Erasmus, ha accolto in formazione quattro eccellenze del Conservatorio “G.Martucci” di Salerno, il flautista, che si dividerà tra flauto ed ottavino, Andrea Ronca, già del magistero di Antonio Senatore, due percussionisti allievi del Maestro Paolo Cimmino, Simone Parisi e il più giovane della spedizione, Domenico Donatantonio, unitamente al clarinettista Manuel Magurno, pupillo del Maestro Gaetano Falzarano, che suonerà il clarinetto basso, un’esperienza vivificante la loro, i quali ritrovano il gesto del Maestro Sipari e l’emozione della voce del soprano albanese.
Il programma verrà inaugurato dalla prima e dall’ ultima opera di Giacomo Puccini, Le Villi, con la Tregenda, dal secondo atto dell’ opera, pagina figlia del suo tempo, ossia di autori cari alla Scapigliatura, parente povera, invero, della “cavalcata delle valchirie” del grottesco di Berlioz del demoniaco di Weber e degli scherzi fantastici di Mendelssohn con un “retrogusto” di Carmen, mentre aria d’esordio della Jaho sarà “Signore, ascolta!” dal primo atto di Turandot, con la sua struggente romanza, in cui Liù esprime il suo amore, tutto devozione e sacrificio, per Calaf, con eleganza e sensibilità, che la porterà al suicidio, alla fine del secondo atto. Ermonela Jaho si trasformerà, quindi, nella Desdemona dell’Otello di Giuseppe Verdi. L’Ave Maria è un pezzo veramente struggente situato alla scena seconda del quarto atto. Desdemona non comprende l’atteggiamento strano di Otello nei suoi riguardi. Il Moro è ormai accecato dalla gelosia causata dal vile e sottile piano di Jago che lo odia a morte. Dal punto di vista propriamente musicale, il brano è un vero gioiello: c’è tutta un’orchestra ad accompagnare le ultime disperate parole di Desdemona, che lo fa con una delicatissima tenerezza. I marcati accordi in pianissimo, presagiscono la triste fine. I lenti e numerosi cromatismi aumentano il clima arcano; l’intonazione grave del canto tende ad esporre in suoni scuri il senso della preghiera; l’Amen finale, che sigilla il tutto riportando i cromatismi suddetti alla rigorosità di una tonalità ben precisa, chiude il canto e, con esso, l’esistenza terrena di un amore sventurato, che ora non può far altro che rivolgersi alla piena di grazia. Si passerà, quindi, ad una delle opere maggiormente interiorizzate sia dal maestro Sipari che donerà l’Intermezzo, che dal soprano, la quale interpreterà l’aria principe del personaggio, “Senza mamma” da Suor Angelica di Giacomo Puccini. Nella pagina strumentale si darà vita alla tavolozza immaginata in partitura, fatta di limpide armonie, tramate di luci e di ombre, ove si rischia di piangere, magari senza lacrime, ma proprio col cuore. La brutale rivelazione della morte del bimbo le toglie l’ultimo appiglio e il suicidio viene, dopo il grande assolo “Senza mamma”, vertice fra i più toccanti dell’arte di Puccini, come diretta conseguenza della contrazione dei tempi drammatici: l’orchestra, dalle iniziali trasparenze, si fa planctus preludiante, figurante poi come trenodia su armonie modali, indi melodia dolce e consolatoria, che ascende in tonalità maggiore “Ora che sei un angelo del cielo”(un chiaro prestito da Madama Butterfly una pagina nascosta fra il duetto dei fiori e la veglia notturna là dove Cio-cio-san chiede dolcemente a Suzuki “un tocco di carminio”) e coda “Dillo alla mamma”. Giungerà, quindi, Adriana Lecouvreur, con le due arie della protagonista a cominciare da “Io son l’umile ancella”, che per la sua raccolta liricità e le sue sfumature elegiache avvicinano Francesco Cilea, in qualche modo, alla scuola francese, mentre Il Maestro Sipari per l’Intermezzo, si affiderà alla bellezza della pagina un’orchestra leggera, accorta, ma pur sempre fondata sulla glorificazione dell’inciso cantabile, il consueto Wagner da filodrammatica, ma mediato attraverso la réduction massenetiana, e soprattutto l’irriducibile edonismo canoro, retrocesso talvolta sin ai vagheggiamenti della scrittura “ornata” in “Poveri fiori”, quella delle quattro battute più quattro, a provarsi a collegarne l’incisività con lo struggimento della memoria, un bel problema, perché qui il divorzio tra parola e immagine musicale accampa diritti affatto identici a quelli codificati in una Fedora o in un Fritz. Ritorno a Puccini con Manon Lescaut e il suo Intermezzo che tristaneggia senza rossore e che nell’ultima pagina contiene una citazione quasi letterale del celebre “Isolde, Liebe”, nonché nel gusto delle armonie e nell’impasto dei suoni e dei timbri, segno che il Tristan und Isolde e il Die Meistersinger von Nürnberg non erano stati studiati superficialmente dall’allievo di Bazzini. Ed eccola Manon “Sola perduta e abbandonata”, alla ricerca di una verità non più esterna, come nei primi due atti, ma del tutto interiore, un ripensamento personale, una sintesi rapida e coraggiosa di sentimenti, più che azioni, che si fondono mirabilmente in un’atmosfera spirituale irreale. Si passerà, quindi, a Madama Butterfly col suo intermezzo sinfonico, che narra musicalmente i momenti dell’inutile attesa notturna di Butterfly, i suoi desideri e i suoi sogni di vita felice con il marito, tutti destinati a svanire con le luci dell’alba, mentre la Jaho donerà “Un bel dì vedremo”: guardo all’orizzonte, orchestrazione rarefatta, melodia sospesa a mezz’aria tra sogno e realtà, tra quelle due parole, “celia” e “morire”, che anticipa, come è abitudine del genio toscano, a nostro parere, il jigai.
Finale del programma ufficiale con il Verdi del III atto di Traviata. Il preludio dell’ultimo atto è racchiuso interamente nella parola sottile. Sottile, nel senso latino di gracilis, exilis, stavolta mentale: la sentenza di morte è pronunciata dal primo violino solo, che nelle sue lente volute, ora ascendenti, ora discendenti, esprime la poesia della stanchezza e dello smarrimento, la vanità di ogni speranza nel futuro e un rimpianto desolato della vita che si dilegua. Quindi, l’Andante mosso “Addio, del passato…”. L’aria, quasi arioso, è trattata con molta libertà e va per accenni sul sentiero dei ricordi, verso l’oblio ultimo, con frasi interrotte da musica che fu. E’ l’inno dimesso, crudele e lapidario alla vita negata, non a caso introdotta dall’oboe, l’ancia del ricordo, che diventa un doloroso annuncio di morte. Applausi, fiori, poi, Ermonela Jaho, diva umilissima, s’inginocchierà baciando il palcoscenico, ringraziando per la sua vita racchiusa e finalizzata unicamente alla più assoluta devozione nei confronti della Musica e all’Arte tutta.