Emily Brontë è un’altura solitaria, una sublimità che risplende, un genio anarchico e visionario: così la descrive Harold Bloom nel suo libro dedicato ai grandi geni della letteratura mondiale. Eppure la scrittrice inglese, vissuta in un piccolo e desolato villaggio dello Yorkshire nella prima metà dell’Ottocento, ha lasciato un solo romanzo “Cime tempestose” e una manciata di poesie. Un destino crudele si abbatte sulla sua famiglia: il padre, il reverendo Patrick Brontë, sopravvive a tutti i suoi sei figli, la moglie e le due figlie maggiori muoiono nel giro di pochi anni, l’unico figlio maschio morirà vittima di alcol e oppio, la stessa Emily perde la vita a soli trent’anni a causa della tubercolosi.
Emily passa le sue giornate dedicandosi agli animali, alla natura e ad Anne, la sorella più fragile, ma è nella scrittura che viene fuori la sua vera anima: selvatica, poetica, intensa, rabbiosa. Il suo mondo narrativo rompe gli schemi, trasforma la letteratura del tempo, squassa e innova. Ma come succede spesso ai rivoluzionari, all’inizio è incompresa. La stessa Charlotte, sua sorella, scrisse una prefazione a “Cime Tempestose” che evidenzia una sorta di processo d’ingentilimento a cui sottopose Emily, cercando di restituirne un’immagine in fondo accettabile e addomesticata, esortando i lettori ad amarla, edulcorando la sua vena eversiva tanto da diventare una delle maggiori responsabili della sbagliata ricezione del romanzo: per molti anni fu considerato un romanzetto d’amore e non il capolavoro che è, l’opera assoluta della scrittrice del vento e della perdita, della ricerca della felicità nell’eterno e quindi dell’infelicità come colpa e non come sciagura o condizione umana. “Cime tempestose” venne pubblicato nel 1847 sotto lo pseudonimo maschile di Ellis Bell. Il titolo prende spunto da quelle terre poste sulla cima di un colle dove spira il vento e la pioggia costante crea un’atmosfera spettrale. Se per Charlotte e Anne l’ambiente domestico e le vicende personali costituirono una fonte di ispirazione per le loro opere, nel romanzo di Emily sembrano perdersi le tracce dell’ambiente familiare dei Brontë, nonostante sia stata tra le sorelle la più legata alla brughiera e alla casa paterna, dove visse per tutti i trent’anni della sua vita, eccetto che per brevissimi periodi di lontananza.
Appena pubblicato, il romanzo provocò subito scandalo per la drammatica violenza dei sentimenti proposta a lettori abituati a una rappresentazione zuccherosa e convenzionale dell’amore, una storia potente e tempestosa che si muove in una dimensione fantastica, nell’universo primordiale dell’istinto e del sentimento: narra le vicende di due famiglie, gli Earnshaw che vivono nelle tempestose cime della brughiera e i ricchi e gentili Linton che abitano nella dolce e verde vallata, due mondi contrapposti e specchio di una diversa visione della vita; in mezzo a loro Heathcliff, tenebroso e malvagio eroe byroniano, il trovatello che porterà avanti una feroce vendetta contro entrambe le famiglie. Emily rompe i tabù della benpensante società vittoriana del tempo e si pone al di là della morale comune, racconta di un personaggio brutale come Heathcliff senza condannarlo e soprattutto propone una concezione dell’amore e della passione che va oltre, un sentimento assoluto che comporta una fusione degli amanti e la perdita della loro identità, e questo minaccia l’ordine della vita borghese. Una sfida ai valori vittoriani con la sua critica alla famiglia, all’educazione, alla morale e alla rispettabilità borghese.
La narrativa del tempo era essenzialmente realistica, tendeva alla rappresentazione della vita quotidiana, aderiva al vero e al credibile. In questo contesto, il romanzo di Emily Brontë apparve straniante e claustrofobico, fuori dal tempo e dallo spazio. La storia si concentra tra le due tenute, non si sposta mai. Il mondo della scrittrice, fatto di passioni, ossessioni e vendette, non si avvicina al mondo reale, i personaggi sono isolati e il lettore si trova immerso in una realtà priva di qualsiasi riferimento realistico. Ad aumentare il senso di straniamento contribuisce la struttura del romanzo, spesso frammentaria e concentrica, che priva il lettore di qualsiasi appiglio sicuro. Era un romanzo diverso, disorientante, unico per intensità visionaria e originalità narrativa, per questo la critica fu avversa: i contenuti troppo forti, la violenza psicologica e materiale che pervade il libro, il carattere mistico e insieme distruttivo dell’amore tra i due protagonisti, la malvagità di Heathcliff, gli elementi gotici che invadono il romanzo uniti a una struttura non lineare che sfida le convenzioni della narrativa del tempo, il punto di vista multiplo della narrazione, la non evoluzione di una vicenda che si consuma in un andirivieni fatale tra le due dimore opposte e speculari spiazzarono tutti, persino i critici.
Ci vollero anni perché il romanzo suscitasse entusiasmo. Soltanto nel Novecento, tuttavia, a “Cime tempestose” venne riconosciuto lo statuto di capolavoro della letteratura di tutti i tempi. In una società letteraria attraversata dai fermenti delle nuove avanguardie e dalle prospettive aperte dalla psicoanalisi, quelle che i primi lettori avevano giudicato trasgressioni eccessive e incoerenze narrative vennero apprezzate come frutto di una sorta di sperimentalismo in nuce, quasi un presagio delle novità che già avevano cominciato a scardinare l’impianto strutturale del romanzo realista ottocentesco. Un’opera che continua a godere di tutto il fascino ambiguo di una storia spregiudicata e poetica, mistica e malvagia, visionaria e grottesca: così lontana dalla società ed estranea alle convenzioni del suo tempo da risultare, miracolosamente, eterna. Virginia Woolf ammirava profondamente il talento innovativo di Emily Brontë: “Che genio, che integrità dev’esserci voluta, davanti a tutta quella critica, in mezzo a quella società puramente patriarcale, per tenersi saldamente alla realtà, così come la vedevano, senza deflettere! Solo Jane Austen ed Emily Brontë l’hanno fatto. Questa è un’altra piuma, la più bella forse, sui loro cappelli. Scrissero come scrivono le donne, non come scrivono gli uomini. Fra le mille donne che allora scrivevano romanzi, solo loro ignorarono del tutto i perpetui ammonimenti dell’eterno pedagogo: scrivi questo, pensa quello. Solo loro furono sorde a quella voce insistente, ora brontolante, ora condiscendente, ora autorevole, ora addolorata, ora scandalizzata, ora arrabbiata, ora familiare, quella voce che non lascia in pace le donne, ma deve sempre star loro addosso…”