Pavia. Dall’imponente mole di materiale giornalistico dedicato all’omicidio di Chiara Poggi, uccisa a Garlasco il 13 agosto 2007, riemerge un vecchio articolo del quotidiano Il Giornale che forse merita di essere riesaminato per ciò che potrebbe implicare a proposito della prima indagine sul delitto e, in particolare, della raccolta e dell’esame delle tracce biologiche presenti sulla scena del crimine.
Il riferimento è alle impronte di sangue riscontrabili sulla giacca del pigiama di Chiara in seguito al ritrovamento del suo corpo senza vita. Sangue della vittima impresso sul tessuto tramite contatto con le dita dell’aggressore durante l’iter criminis? Verosimile.
A tali tracce fa riferimento la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano del 17 dicembre 2014 che, dopo due assoluzioni, ha ritenuto Alberto Stasi, fidanzato di Chiara, responsabile dell’omicidio (il cosiddetto “Appello bis”).
“Il Procuratore Generale ha […] mostrato in aula gli ingrandimenti delle fotografie scattate dai CC di Pavia […] che evidenziano le quattro tracce dei quattro polpastrelli insanguinati dell’assassino, visibili sulla maglia rosa del pigiama indossato da Chiara, all’altezza della spalla sinistra, cui corrisponde, nella parte anteriore della stessa maglia, un frammento di impronta palmare insanguinata”, si legge alle pagg. 113-114 della sentenza in questione. “Dette impronte (purtroppo mai analizzate, perché la maglia arrivava al medico legale completamente intrisa di sangue) dimostrano sia le modalità di afferramento del corpo per scaraventarlo in fondo alla scala, che il fatto che l’assassino si fosse appunto sporcato le mani, e avesse pertanto avuto la necessità di andare a lavarsele in bagno […].”
A prescindere dalle ipotesi formulate in tema di dinamica dell’aggressione omicida e di quanto a essa potrebbe essere seguito, non necessariamente condivisibili, il dato per noi rilevante è appunto che le tracce presenti sul pigiama della vittima non sarebbero state analizzate perché non più disponibili.
Di esse restano quindi i menzionati ingrandimenti fotografici. A quanto riportato dagli organi di stampa, nel 2022 la maglia sembrerebbe essere stata distrutta insieme ad altri reperti correlati al caso, come spesso avviene in seguito a sentenze definitive.
L’indumento avrebbe potuto essere sottoposto a esami potenzialmente utili a fini di indagine? È quanto il quotidiano Il Giorno ha recentemente chiesto Franco Posa, criminologo clinico e patologo forense, consulente di varie Procure.
“La risposta è sì”, ha affermato Posa. “Il corpo della vittima è stato, per così dire, manipolato dall’assassino, che si è chinato su di esso, l’ha sollevato di peso, si presume dalle ascelle, l’ha scaraventato lungo la scala della cantina.”
“Da qualche parte della maglietta la biologia c’era” ha proseguito il patologo forense. “Anche in presenza di compromissioni come l’abbondante assorbimento di sangue, sarebbe stato comunque possibile tentare un prelievo selettivo alla ricerca di profili genetici dell’aggressore o degli aggressori. Le impronte insanguinate, come quelle rilevate sul pigiama della vittima, sono punti di contatto diretto tra il corpo della vittima e quello dell’aggressore che possono contenere cellule epiteliali o secrezioni cutanee, utili per un’analisi del Dna. Oltre a questo si sarebbero potuti effettuare dei prelievi nelle parti dell’indumento interessate dalla probabile dinamica omicidiaria che si diceva: sollevamento del corpo, lancio sulla scala.”
L’intervistatore ha chiesto poi a Posa se le fotografie delle impronte potrebbero a loro volta risultare di qualche utilità. “Si può partire da una fotografia per una valutazione preliminare, ma questo è generalmente possibile solo se l’immagine è ad altissima risoluzione, ravvicinata, e se la superficie su cui l’impronta è stata impressa risulta stabile, liscia, omogenea. Su una maglietta intrisa di sangue, tutto questo è altamente improbabile”, ha considerato tra l’altro il consulente.
E veniamo a quanto accennato all’inizio, all’articolo pubblicato sul Giornale il 4 settembre 2007, a meno di un mese dal delitto. Nel pezzo si fa riferimento ai sospetti che gli inquirenti nutrono nei confronti di Alberto Stasi – a carico del quale, peraltro, si legge che “finora non ci sono prove e forse neppure indizi, ma qualche incongruenza nel suo racconto. Troppo poco per andare in Assise” – e alla prosecuzione delle indagini. E, proprio con riferimento agli accertamenti programmati e in corso di svolgimento, si parla dell’esame di impronte digitali, di sangue, di sudore e, in generale, di materiale organico.
“In particolare”, spiega il quotidiano, “ci sono alcune ‘ditate’ lasciate sulla spalla di Chiara riconducibili inequivocabilmente all’assassino. Il killer ha stretto la spalla della giovane con una mano intrisa di sangue, mentre con l’altra vibrava l’ultimo fendente alla nuca.”
Ipotesi sulla dinamica omicida a parte, sembra che si faccia riferimento alle tracce di cui parla il passaggio della sentenza dell’“Appello bis” che abbiamo citato. Sennonché, ci informa l’articolo, “sul tessuto è rimasta impressa l’impronta mentre, mischiato alla sostanza ematica, c’era il sudore del killer, che è stato possibile isolare, risalendo al suo Dna.”
Dunque, riassumendo: ammesso che si tratti delle medesime tracce (e dall’esame comparato delle fonti che abbiamo condotto sembrerebbe che vi siano pochi dubbi in proposito), un articolo di giornale scritto ventidue giorni dopo il delitto sostiene che dalle tracce di sudore commiste alla sostanza ematica presente sulla giacca del pigiama di Chiara (il testo parla di “tessuto”) sarebbe stato addirittura estratto il Dna dell’assassino e, nel 2014, la sentenza che condanna Alberto Stasi sostiene che le tracce in questione non si sarebbero neppure potute esaminare perché andate perdute. La perplessità è ragionevole, se ne converrà. E, riteniamo, legittimi gli interrogativi che la circostanza non manca di suscitare.