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Delitto di Garlasco: nuovi e vecchi “supertestimoni”, tra rivelazioni shock e strane ritrattazioni

Luca Marrone di Luca Marrone
28 Maggio 2025
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Pavia. Nuovi sviluppi nell’indagine sull’omicidio di Chiara Poggi, uccisa a Garlasco il 13 agosto 2007. È l’ora dei “supertestimoni”, categoria fenomenologica di cui fanno parte anche le “superperizie”, i “superconsulenti”, i “superpoliziotti”, etc., e che, nel gergo dei mass media, dovrebbero indicare elementi di particolare rilievo ai fini di un’indagine e designare soggetti dalle non comuni attitudini investigative.

Tali iperboli definitorie sembrano assolvere alla sola funzione di attribuire maggiore enfasi alle notizie su un caso giudiziario, che si succedono a ritmo serrato, alimentando in modo spasmodico la curiosità dei lettori-spettatori, imponendo loro la frenesia di sempre nuovi aggiornamenti, che si pretendono sempre più clamorosi e scioccanti. Un parossismo che, al di là di immediate, adrenaliniche gratificazioni, certo non giova all’effettiva, approfondita conoscenza di una vicenda.

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La ragazza con il borsone

Il primo “supertestimone” di oggi è, in questo momento dell’indagine, anche il più celebre. Quel “Carlo” (nome di fantasia) che tempo fa ha rilasciato la sua testimonianza alle Iene, parlando di quanto, all’epoca dei fatti, gli avrebbero riferito due donne anziane, oggi defunte, in merito ad un asserito, singolare avvistamento di Stefania Cappa, una delle gemelle cugine di Chiara Poggi. Subito dopo il delitto, costei, circostanza del tutto insolita, si sarebbe recata, in stato di evidente alterazione emotiva, presso l’abitazione della nonna a Tromello, vicino Garlasco, e qui si sarebbe disfatta di un pesante borsone gettandolo nell’adiacente canale. Canale che, in seguito a tali rivelazioni (acquisite dalla Procura prima di essere divulgate in televisione) è stato dragato, consentendo l’acquisizione di reperti che potrebbe comunque rivelarsi arduo ricondurre, tramite analisi forensi, al delitto.

Ora, il “supertestimone” ha deciso di rivelarsi, a quanto dicono i giornali, per avvalorare la sua testimonianza. Lo ha fatto rilasciando, sempre alle Iene, una nuova intervista contenente una dichiarazione impegnativa: “Ci metto la faccia in quanto sono stato diffamato pubblicamente dall’avvocato della famiglia Poggi, Luigi Tizzoni, dopo la messa in onda del servizio della settimana scorsa.”

A detta dell’uomo, che si chiama Gianni Bruscagin, la testimonianza de relato avente ad oggetto la presenza della Cappa presso la nonna, sarebbe stata da lui proposta fin da subito al legale della famiglia Stasi ma, nella circostanza, “non c’era stata volontà di ascoltare.” Bruscagin ha inoltre mostrato i bigliettini su cui, all’epoca, avrebbe trascritto quanto dichiaratogli delle donne oggi defunte. “L’ho fatto per non dimenticare. Ho detto la verità, non ho paura di niente.”

Nella più recente intervista, Bruscagin ha ribadito che, nei giorni successivi al delitto, sarebbe stato proprio “l’avvocato Tizzoni a cercarmi.” “Mi ha chiamato e ci siamo visti, mi ha chiesto aiuto. Mia mamma lavorava da sua mamma. Il giorno dopo aver saputo di Stefania Cappa sono andato da lui e mi ha stoppato. Secondo lui non si poteva fare perché c’era già una pista che si stava seguendo. Non mi ha detto di andare dai Carabinieri, ma ho parlato io con un colonnello che conoscevo e che mi ha detto che rischiavo di andarci di mezzo io. Lui era di Milano, mi ha messo in allerta perché diceva che coloro che si stavano occupando del caso non erano affidabili.”

La dichiarazione fa anche riferimento a quanto replicato dall’avvocato Tizzoni alle prime esternazioni del soggetto. Il legale della famiglia Poggi aveva definito Bruscagin una “persona che conosco benissimo, praticamente da quando sono nato.” Era “una delle tante persone che nel settembre-ottobre 2007 mi contattavano, anche perché c’era una pressione mediatica come quella di oggi, proponendo tesi. Nel suo caso, proponendosi sostanzialmente come detective, investigatore privato, che è una delle tantissime attività che ha svolto nella sua vita”, ha aggiunto. “Io gli ho detto che non eravamo interessati perché non c’era nulla di concreto in quello che diceva, ma di andare dai Carabinieri, cosa che mi risulta essere avvenuta. Quindi, se ci fosse stato qualcosa di veramente rilevante immagino che l’Arma dei Carabinieri l’avrebbe attenzionata.”

La ragazza con l’attizzatoio

Nel corso di Mattino Cinque News sono state proposte alcune dichiarazioni di Francesco Marchetto, all’epoca del delitto comandante della stazione dei Carabinieri di Garlasco, estromesso dalle indagini pochi giorni dopo il fatto.

L’ex comandante fa riferimento a quanto dichiarato da un uomo in Procura poco dopo l’omicidio: a quanto risulta dal verbale, questi ha riferito di aver visto una ragazza in sella a una bici andare verso Garlasco la mattina del delitto, il 13 agosto 2007, tra le 9,30 e le 10 (la prima diagnosi di epoca della morte di Chiara colloca il decesso tra le 10,30 e le 13).

Il testimone ha descritto una ragazza con i capelli biondi a caschetto, che procedeva leggermente a zigzag e teneva in mano un attizzatoio da camino o un attrezzo simile.

Il verbale della deposizione si interrompe e riprende dopo circa un’ora, dando conto del fatto che l’uomo ha ritrattato le precedenti dichiarazioni asserendo che fossero un parto della sua fantasia. Cosa è successo tra una dichiarazione e l’altra? Non è dato saperlo.

Agli atti dell’inchiesta vi è comunque una intercettazione telefonica in cui lo stesso soggetto, parlando col padre dopo essere stato in Procura, ha confermato di aver riferito quanto da lui effettivamente visto.

Ebbene, secondo Marchetto, ascoltato nel corso della trasmissione di Canale 5, il testimone avrebbe ritrattato “perché è stato minacciato o intimidito”, da “qualcuno che era all’interno della Procura in quel momento.”

Una lite prima dell’omicidio?

Nel corso della prima inchiesta su Andrea Sempio, risalente al 2016 e conclusasi con l’archiviazione, un’agenzia investigativa incaricata dalla difesa di Alberto Stasi, condannato per il delitto, ha svolto alcune indagini difensive, nel corso delle quali ha individuato un possibile, ulteriore testimone.

In realtà, sarebbe stata la stessa famiglia di Alberto a segnalarlo: il 12 gennaio 2016, un uomo, un contadino, si sarebbe recato presso il negozio di autoricambi degli Stasi affermando di conoscere “la verità” sull’omicidio. Nelle carte si parla della possibilità che il soggetto, impegnato a lavorare i campi nei pressi della villetta dei Poggi, abbia “sentito un litigio” o una “conversazione […] tra la vittima e il suo assassino.”

Gli investigatori privati, impegnati nelle predette indagini dal 26 ottobre al 3 dicembre 2016, hanno raccolto le dichiarazioni del contadino ed effettuato una ricognizione dei luoghi per verificarne la plausibilità. Dunque? Un ulteriore dettaglio potenzialmente utile alla ricostruzione della dinamica del delitto?

Orme, impronte e tracce materiali

La nuova indagine prosegue intanto anche su altri fronti. A breve verrà depositata una consulenza tecnica sull’impronta di calzatura presente sulla scena del crimine. Una suola con disegno a pallini che, si è detto, dovrebbe essere di taglia 42. La sentenza di condanna la attribuisce ad Alberto Stasi. Oscar Ghizzoni, consulente tecnico della sua difesa, ha tentato di dimostrare che tale attribuzione non apparirebbe certa, la sua relazione tecnica è stata allegata alla seconda istanza di riapertura del caso, bocciata dalla Gip e accolta dalla Cassazione. Ora l’esame dovrà essere ripetuto nell’ambito di una generale riconsiderazione della dinamica dell’omicidio, per valutare tra l’altro se l’impronta possa risultate riconducibile anche ad altre misure.

Nella sentenza di condanna si fa inoltre riferimento al fatto che, dopo il delitto, Alberto Stasi si sarebbe lavato nel lavandino del bagno del piano terra, lasciando l’impronta di due dita sul dispenser del sapone. Una versione alternativa prospetta invece la possibilità che l’omicida si sia semplicemente fermato presso il lavandino per guardarsi allo specchio, in cerca di eventuali macchie di sangue. Gli investigatori che, nel 2020, hanno tentato di riaprire le indagini, hanno considerato che certamente, come accertato dal Ris, il lavandino del bagno del piano terra risultava “privo di tracce ematiche”, ma che “è impossibile che il lavandino e il dispenser” siano stati “lavati accuratamente dall’aggressore.”

Ciò perché, oltre alle due impronte di Stasi, su quel dispenser sono state repertate “numerose impronte papillari sovrapposte” che un lavaggio avrebbe evidentemente cancellato. Il reperto recava peraltro anche il Dna di Chiara e della madre.

Una fotografia scattata nel bagno durante le prime attività di sopralluogo mostra, inoltre, quattro capelli “neri lunghi”, mai repertati, alcuni dei quali in prossimità dello scarico. Il che attesterebbe, secondo gli investigatori, che “il lavandino non è mai stato lavato dalla presenza di sangue”, altrimenti i capelli in questione sarebbero stati “portati via dall’acqua”.

A questo si aggiunga l’ormai nota impronta 10, repertata sulla parte interna della porta d’ingresso di casa Poggi: chi indaga ipotizza che potrebbe essere stata lasciata dall’assassino durante la sua fuga dal locus commissi delicti. O sa uno degli assassini, secondo lo scenario dell’omicidio di gruppo che sta emergendo in questi giorni.

“Chiara aveva scoperto il giro”

“Anche sul computer di Chiara, così come per Stasi, furono fatti ripetuti e devastanti accessi fino al 28 agosto. Di recente ho fatto un carving, una ricerca di file ancora leggibili, sia sul computer della sua stanza che sulla usb ritrovata accanto alla tv. E qualcosa sta venendo fuori.” È quanto dichiara a Repubblica l’ingegner Roberto Porta, consulente del Gup Stefano Vitelli all’epoca del processo Stasi. Dal riesame dei reperti informatici sembrerebbero emergere dati inediti. In una chiavetta usb della vittima vi è un file che denominato “Abusati500.doc”, salvato per la prima volta l’8 giugno 2007 e modificato quattro giorni dopo. Contiene un articolo di Concita De Gregorio dal titolo La mala educacion, incentrato su abusi sessuali compiuti da preti statunitensi.

Salvate sul computer di Chiara, invece, due immagini del Santuario della Bozzola, rispettivamente datate 26 luglio 2007, ore 11,06, e 1° agosto 2007, ore 15.41. In quegli orari, in genere, la giovane era al lavoro a Milano. Lo scandalo che ha coinvolto il Santuario, di cui nei giorni scorsi si è tornato a parlare diffusamente, ha avuto come protagonista don Gregorio Vitali che, a quanto affermato da due rumeni, aveva avuto rapporti sessuali con minorenni. Un’indagine sotto copertura dei Carabinieri di Vigevano ha consentito di accertare che i due avevano ricattato il prete, essendo in possesso di un audio che documentava sue interazioni sessuali. Don Gregorio Vitali ha infine ammesso di aver avuto un solo rapporto e gli è stato proibito di celebrare messa. Il tutto è emerso nel 2014. Uno dei verbali dell’inchiesta riporta però la testimonianza di un sacerdote della Diocesi di Vigevano: “Nel settembre del 2006 venni a sapere che presso il Santuario, già all’epoca retta da Padre Gregorio, vi erano degli incontri sessuali.”

Secondo quanto riferito da un giovane rom che abitava a Milano, si sarebbe trattato di incontri a pagamento: “Un suo amico, maggiorenne, si recava spesso al Santuario e riceveva delle somme di denaro in cambio di prestazioni sessuali.” Il vescovo dell’epoca “non attivò nessun tipo di accertamento.”

Le ricerche di Chiara correlate con la pedofilia avrebbero quindi potuto riguardare proprio le vicende del Santuario. E, secondo i ricattatori, raggiunti dalla trasmissione Chi l’ha visto? (altri “supertestimoni”?), sussisterebbe un legame tra la vicenda e il delitto di Garlasco: “La ragazza aveva scoperto il giro e diceva che avrebbe parlato, da lì è partito tutto.” Affermazione da considerare ovviamente con ogni cautela.

Tags: Chiara PoggiDelitto di Garlasco
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