Pavia. Come era prevedibile, il deposito della perizia affidata alla dottoressa Denise Albani nell’ambito dell’incidente probatorio in atto relativamente alle nuove indagini sul delitto di Chiara Poggi ha suscitato più di una polemica. Nel nostro Paese – e, forse, non solo nel nostro – ogni vicenda giudiziaria richiedente indagini per chiarirne dinamiche e responsabili innesca sui mass media inevitabili contrapposizioni che, nella maggior parte dei casi, non si mantengono sul piano del sano contraddittorio, del rispettoso confronto dialettico, ma assumono i tratti del conflitto tra tifoserie, infarcito di attacchi, insulti, profusione di greve ironia nei confronti della controparte, sfoggio di sprezzante senso di superiorità, etc.
Tutto ciò, superfluo precisarlo, non ha molto a che vedere con l’effettivo, sostanziale dispiegarsi dell’indagine giudiziaria (che deve procedere con rigore, lucidità, equilibrio ed equidistanza) e con il giornalismo nell’accezione più nobile del termine.
Nel dare conto del contenuto del predetto elaborato peritale – tra l’altro volto, com’è noto, a esaminare il Dna rinvenuto sopra (o sotto) le unghie di Chiara Poggi all’epoca delle prime indagini sul delitto per valutarne la possibile attribuibilità – non aderiremo a uno dei “partiti” che, in questi giorni, stanno accanitamente dibattendo la questione sui giornali, in televisione e sui social. Non sposeremo la tesi dell’una o dell’altra fazione (in breve: Dna utilmente riconducibile o meno all’attuale indagato, Andrea Sempio e correlato o meno alla dinamica dell’omicidio). Ciò non per eludere una presa di posizione, ma perché, in primis, non siamo certi che le nostre personali opinioni in proposito costituiscano un dato di particolare interesse per il lettore e, in secundis, perché siamo appunto persuasi del fatto che un cronista o un giornalista di inchiesta dovrebbero tentare di dar conto di ogni elemento acquisito per ciò che è e ciò che implica, senza proporlo alla luce di una propria idea precostituita ma, per così dire, consentire – laddove possibile – ai fatti di parlare da sé.
Tutto quanto premesso, riteniamo necessario, proprio per completezza e obbiettività, condividere per intero il quesito peritale che il Gip ha assegnato alla genetista Denise Albani e le conclusioni cui l’esperta è pervenuta all’esito dei sui esami (senza evidenziazioni che ne omettano ad arte alcuni stralci, come pure è capitato altrove). Il che ci prenderà un po’ di spazio e ce ne scusiamo con il lettore.
Il quesito peritale
All’udienza del 16 maggio 2025, il Giudice per le indagini preliminari di Pavia, la dottoressa Daniela Garlaschelli, ha incaricato la dottoressa Albani “di procedere come segue. Acquisito tutto il materiale e le informazioni necessarie:
- analizzare i profili genetici estrapolati dai margini ungueali di Poggi Chiara, ottenuti dal perito Prof. Francesco De Stefano, già nominato dalla Corte di Assise di Appello di Milano nel procedimento penale n. R.G. 47/2013;
- valutare la possibilità di utilizzare, ai fini di un confronto attendibile e secondo lo stato attuale della scienza e delle tecniche forensi, i profili genetici di cui al punto precedente;
- effettuare l’estrazione del Dna dai “para-adesivi” delle impronte rinvenute sulla scena del crimine e dagli oggetti già analizzati presso i laboratori del Ris di Parma;
- procedere all’estrazione del Dna da campioni biologici e reperti: che non siano mai stati sottoposti ad analisi genetica; già oggetto di analisi ma con esiti dubbi o inconclusivi ancora presenti presso l’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Pavia;
- eseguire la comparazione dei profili genetici estrapolati al fine di accertarne l’eventuale corrispondenza o compatibilità con: il profilo genetico dell’indagato Andrea Sempio; il profilo genetico di Alberto Stasi; i profili dei membri della famiglia Poggi; i profili genetici di eventuali altri soggetti che frequentavano abitualmente l’abitazione della vittima individuati in: Capra Mattia, Freddi Roberto, Biasibetti Alessandro e, per quanto riguarda i vari e ulteriori reperti, Cappa Stefania e Cappa Paola, nonché per Marco Panzarasa, nonché gli Ufficiali Cassese Gennaro, Pizzamiglio Marco e Sangiuliano e Marco Ballardini, procedendo, ove necessario, al prelievo di campioni biologici utili ai fini della comparazione, rivolgendosi al Giudice in caso si debba provvedere al prelievo coattivo su persone non indagate secondo le forme e le modalità previste dall’art. 224-bis c.p.p.;
- svolgere ogni eventuale ulteriore accertamento ritenuto di utilità al fine di rispondere ai quesiti.”
Le conclusioni
Di seguito, riportiamo le conclusioni della relazione. Da notare che, a seconda del “partito” di appartenenza, ciascun commentatore ha dato risalto all’una o all’altra parte del testo.
“Per concludere, questo Perito ritiene che una corretta valutazione degli esiti dei calcoli biostatistici in parola con supporto moderatamente forte/forte e moderato circa la contribuzione di SEMPIO Andrea (e di tutti i soggetti imparentati con lo stesso per via patrilineare) alle tracce Y428 – MDX5 e Y429 – MSX1 debba necessariamente tenere conto di tutte le ‘proprietà intrinseche’ che caratterizzano gli aplotipi oggetto di comparazione, delle molteplici criticità riscontrate nella disamina degli atti e delle limitazioni in termini di conoscenze e applicativi attualmente disponibili nella comunità scientifica internazionale per le valutazioni biostatistiche (uno fra tutti l’assenza di un database che contempli la popolazione locale d’interesse).”
Ancora: “L’analisi del cromosoma Y non consente di addivenire a un esito di identificazione di un singolo soggetto, anche qualora i risultati siano completi, consolidati e attribuibili a una singola fonte.
Nel caso di specie si tratta di aplotipi misti parziali per i quali non è possibile stabilire con rigore scientifico:
- se provengano da fonti del Dna depositate sotto o sopra le unghie della vittima e, nell’ambito della stessa mano, da quale dito provengano;
- quali siano state le modalità di deposizione del materiale biologico originario;
- perché ciò si sia verificato (per contaminazione, per trasferimento avventizio diretto o mediato);
- quando sia avvenuta la deposizione del materiale biologico.
A parere di questo Perito, infine, le strategie analitiche adottate nel 2014 (mancata quantificazione del Dna e utilizzo di diversi volumi di eluato per le tre sessioni di tipizzazione Y) hanno di fatto condizionato le successive valutazioni perché non hanno consentito di ottenere esiti replicati (congiuntamente comparabili) al fine di giungere a un risultato che fosse certamente affidabile e consolidato o, diversamente, certamente non interpretabile perché caratterizzato da artefatti.”
Un contributo utile?
Questo risulta dalla documentazione prodotta. Comprensibile che gli organi di stampa abbiano riservato pressoché esclusiva attenzione al dato che gli esiti dei calcoli biostatistici consentissero di ricondurre a Sempio e ai soggetti con lui imparentati “per via paterlineare” le tracce esaminate “con supporto moderatamente forte/forte e moderato”.
Ma forse meriterebbe qualche riflessione anche ciò che la perita precisa subito dopo, ovvero che la valutazione dovrebbe tenere presenti: a) le “proprietà intrinseche” degli aplotipi comparati (parziali, misti o non consolidati?); b) le molteplici criticità riscontrate nella disamina degli atti; c) le limitazioni relative alle conoscenze e agli applicativi attualmente disponibili nell’ambito della comunità scientifica internazionale per le valutazioni biostatistiche (uno fra tutti l’assenza di un database che contempli la popolazione locale d’interesse).
A ciò si aggiunga l’impossibilità di stabilire scientificamente l’effettiva provenienza del Dna esaminato (sopra o sotto le unghie della vittima, la mano e le dita), le modalità di deposizione del materiale biologico, le cause (contaminazione, trasferimento diretto o mediato) e il tempo della stessa.
Il quesito che – da profani – ci poniamo riguarda l’effettiva, concreta spendibilità, in un eventuale giudizio, di tali esiti: risulterebbero insomma utilizzabili per pervenire a una verità processuale oltre ogni ragionevole dubbio? Riportiamo un commento di Albina Perri, la direttrice del settimanale Giallo (fin dall’inizio in prima linea nel seguire ogni sviluppo della vicenda) sugli esiti della perizia: “Qualcuno è ancora confuso sulle conclusioni sul Dna che in realtà sono chiarissime: è di Sempio. Il 18 dicembre [data prevista per l’udienza in cui verrà discussa la relazione della dottoressa Albani, ndr] ci sarà l’ultima tappa. Poi questo Dna potrà essere usato in un eventuale ma probabile processo come prova contro Sempio. È molto più semplice di come lo stanno descrivendo i consulenti di Sempio e dei Poggi. Il Dna è di Sempio. Non si scappa.”
La riconducibilità del materiale genetico in questione all’attuale indagato sembra invero non escluso neanche dai consulenti della sua difesa. I possibili sviluppi del caso ci diranno se i termini con cui le conclusioni della perizia sono formulate potranno consentire ulteriori certezze processuali in merito alla ventilata correlazione tra le tracce stesse e la dinamica del delitto.
Per il momento, ribadendo la nostra ignoranza in materia di genetica forense, ci limitiamo a riportare quanto dichiarato da Salvatore Spitaleri, biologo forense e criminalista, già in forza presso il Ris di Messina, in una intervista a Fanpage: “Quello che stride di più è il fatto di aver forzato la mano, l’aver fatto un calcolo biostatistico su un aplotipo che l’Albani stessa ha definito ‘parziale, misto o non consolidato’”, considera Spitaleri. “In genetica forense, quando si parla di un dato parziale, misto e non consolidato, non è possibile utilizzarlo per scopi identificativi. Qui si stanno forzando tutte le regole dettate dalla comunità scientifica internazionale, che prevede, quando si lavora su un Dna a basso numero di copie, che si debbano seguire pedissequamente delle linee guida. Nello specifico, si deve ripetere più volte l’analisi e verificare che quel dato venga consolidato nelle successive repliche. Qui non c’è nulla di tutto questo.” “E allora, dal punto di vista scientifico, questo dato non può essere usato. E, dunque, se non può essere usato, non si possono fare i calcoli. Questa è stata una forzatura: fare i calcoli su un dato che non è consolidato e che quindi non è sicuro”, conclude.
In effetti, a pagina 73 della perizia Albani si legge: “Sulla base delle informazioni acquisite, per eseguire una corretta valutazione degli esiti peritali del 2014, in assenza di dati sulla concentrazione del Dna totale umano e maschile e avendo il Prof. De Stefano impostato le sessioni analitiche partendo da diversi volumi di eluato, non è possibile considerare le tre sessioni di tipizzazione Y relative a ciascun margine ungueale come repliche ma è opportuno prenderle in considerazione come risultanze indipendenti, con il limite oggettivo di non possedere alcun risultato consolidato e di non poter estrapolare alcun profilo consenso” (corsivo nostro).
E, in tema di analisi genetica, la sentenza n. 26031 del 15 luglio 2025 della Suprema Corte di Cassazione considera che, secondo la giurisprudenza di legittimità con indirizzo largamente maggioritario, in tema di indagini genetiche, l’analisi comparativa del Dna svolta senza effettuare quanto prescritto dai Protocolli scientifici internazionali in materia di “repertazione e conservazione dei supporti da esaminare, nonché di ripetizione delle analisi, comporta che gli esiti di ‘compatibilità’ del profilo genetico comparato non abbiano il carattere di certezza necessario per conferire loro una valenza indiziante, costituendo essi un mero dato processuale, privo di autonoma capacità dimostrativa e suscettibile di apprezzamento solo in chiave di eventuale conferma di altri elementi probatori […] Invero, […] nel processo penale possono trovare ingresso solo esperienze scientifiche verificate secondo canoni metodologici generalmente condivisi dalla comunità scientifica di riferimento di talché l’utilizzabilità dei risultati della prova scientifica comporta in maniera imprescindibile il rispetto delle regole che ne disciplinano l’acquisizione e la formazione all’interno del processo. Il giudizio di affidabilità degli esiti attinti deve essere pertanto fondato sulla osservanza delle garanzie che presidiano l’iter formativo della prova” (corsivo nostro).[1]
Insomma, la perizia si rivelerà effettivamente utile in un eventuale giudizio? Non resta che attendere sviluppi.
Un accertamento “scomparso”
Quello del Dna sulla scena del crimine sembra comunque essere uno degli aspetti più importanti della problematica e tormentata inchiesta sulla vicenda. In questi mesi si è parlato di ulteriori tracce genetiche presenti nella villetta in cui il delitto si è consumato, potenzialmente significative a fini di indagine. Nel 2007, a ridosso del delitto, si è brevemente menzionato anche un Dna in seguito, potremmo dire, misteriosamente scomparso dalle pagine dei giornali e di cui abbiamo già dato conto in un articolo dell’agosto 2025.
Partiamo dalla fine e andiamo a ritroso. 1 luglio 2025: Rai News riporta quanto dichiarato dall’avvocato Antonio De Rensis, uno dei difensori di Alberto Stasi, nel corso di una puntata della trasmissione Filorosso, in onda su Rai Tre. Parlando dell’omicidio commesso diciotto anni prima, De Rensis ha denunciato che la relativa indagine sarebbe stata “piena di errori, lacune. Unico caso nella storia giudiziaria italiana in cui c’era la firma dell’assassino: con le quattro impronte sul pigiamino.”
Si riferiva, De Rensis, a una traccia osservata, in sede di sopralluogo, sulla spalla sinistra della giacca del pigiama indossata da Chiara al momento dell’omicidio – l’impronta di quattro dita della mano dell’aggressore – in seguito irreversibilmente persa a causa, si è detto, di una errata manovra volta a rimuovere il corpo della vittima dal luogo del delitto. “Qualcuno ha permesso che il corpo”, sono le parole del legale, “dopo essere stato fotografato dai Carabinieri, venisse voltato e immerso in una pozza di sangue. Credo che chi ha commesso questo dovrebbe o tacere, o andare davanti ad una telecamera e dire: è stato commesso un errore determinante.”[2]
Sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano del 17 dicembre 2014. È la sentenza che, dopo due assoluzioni, ha condannato Alberto Stasi, fidanzato di Chiara, a sedici anni di reclusione per l’omicidio. Alle pagine 113-114 si legge: “Il Procuratore Generale ha […] mostrato in aula gli ingrandimenti delle fotografie scattate dai CC di Pavia […] che evidenziano le quattro tracce dei quattro polpastrelli insanguinati dell’assassino, visibili sulla maglia rosa del pigiama indossato da Chiara, all’altezza della spalla sinistra, cui corrisponde, nella parte anteriore della stessa maglia, un frammento di impronta palmare insanguinata. Dette impronte (purtroppo mai analizzate, perché la maglia arrivava al medico legale completamente intrisa di sangue) dimostrano sia le modalità di afferramento del corpo per scaraventarlo in fondo alla scala, che il fatto che l’assassino si fosse appunto sporcato le mani, e avesse pertanto avuto la necessità di andare a lavarsele in bagno […].”
Torniamo a menzionare questo elemento perché, a ridosso del delitto, mentre erano in corso le prime indagini, si è parlato del reperto in questione in tutt’altri termini.
Il Giornale, 4 settembre 2007. Un articolo, a firma “Redazione”, fa riferimento alle tracce repertate e agli accertamenti da eseguire su di esse. “In particolare”, si legge, “ci sono alcune ‘ditate’ lasciate sulla spalla di Chiara riconducibili inequivocabilmente all’assassino. Il killer ha stretto la spalla della giovane con una mano intrisa di sangue, mentre con l’altra vibrava l’ultimo fendente alla nuca. Sul tessuto è rimasta impressa l’impronta mentre, mischiato alla sostanza ematica, c’era il sudore del killer, che è stato possibile isolare, risalendo al suo Dna.”[3]
Come risulta evidente, si fa riferimento a uno scenario del tutto diverso e inconciliabile con la narrazione dell’impronta cancellata per errore in sede di sopralluogo e, di conseguenza, inutilizzabile. Qui, addirittura, si menziona una traccia di sudore già individuata e separata rispetto a quelle di sangue presenti sulla giacca del pigiama della vittima. E da cui si sarebbe persino estratto il Dna dell’omicida. Un occasionale abbaglio dell’anonimo autore del pezzo? Andiamo ulteriormente a ritroso.
Il Giornale, 1 settembre 2007. Un articolo più circostanziato, firmato da Enrico Silvestri, ci informa che “l’ultimo colpo inferto a Chiara potrebbe essere stato fatale anche al suo assassino. Per meglio sferrarle il fendente sulla nuca il killer ha infatti bloccato la vittima con una mano sulla spalla. E le sue dita, intrise del sangue della ragazza, hanno lasciato le impronte sul tessuto e alcuni residui sebacei da cui è già stato ricavato il Dna.”
“È questa la carta vincente in mano agli investigatori”, continua, “che tra una decina di giorni avranno concluso la comparazione con i prelievi effettuati ad amici, parenti, fidanzato e famigliari e potranno dare finalmente un nome all’omicida di Garlasco.”[4]
Per ragioni su cui ci auguriamo si giungerà a fare definitivamente luce, l’indagine si sarebbe poi sviluppata secondo altre “narrazioni”.
[1] https://canestrinilex.com/risorse/dna-attendibile-solo-se-osservati-i-protocolli-metodologici-cass-2603125 (Consultato l’8 dicembre 2025).
[2] https://www.rainews.it/articoli/2025/07/delitto-garlasco-legale-stasi-la-firma-dellassassino-sulle-4-impronte-sul-pigiama-di-chiara-omicidio-di-chiara-poggi-7afa5ee3-61a0-49dc-9b12-604d57b1c499.html (consultato l’8 dicembre 2025).
[3] https://www.ilgiornale.it/news/i-ris-cercano-prova-regina-mano-ha-tradito-killer.html (Consultato l’8 dicembre 2025).
[4] https://www.ilgiornale.it/news/omicidio-pavia-sulla-maglietta-chiara-l-impronta-killer.html (Consultato l’8 dicembre 2025).


