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Dall’Abruzzo a Berlino, intervista a Copycat Club: Vasto nel video musicale del producer elettronico

Roberta Baldassarre di Roberta Baldassarre
19 Giugno 2016
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death-to-the-ccVasto. Un po’ vintage un po’ minimal così si presenta Copycat Club il progetto elettronico di Diego Parravano, giovane artista abruzzese con base a Berlino, completamente autoprodotto che vede la partecipazione di diversi artisti indipendenti della sfera underground berlinese. Il 31 maggio è uscito il suo primo disco dal titolo “Death to the Copycat Club”, un do it yourself elettronico e sperimentale di undici tracce, che mescola beat caldi al più cinico sound berlinese. L’album, anticipato dai singoli “GanzBerlin” e “Fall”, è figlio della sfera underground berlinese, un contesto in continua fermentazione artistica. Attraverso suoni ipnotici e ricercati il producer abruzzese racconta i cambiamenti della capitale tedesca che vive in prima persona. I brani composti utilizzando strumenti creati dall’artista, sono stati prodotti nello studio privato di Diego Parravano e masterizzate da Mattia Schroeder presso l’Absonant Studio di Roma. Il disco, disponibile su Soundcloud, Bandcamp e Spotify, è accompagnato da 11 videoclip che saranno proiettati il 25 Giugno presso Glogauair, uno spazio espositivo nel cuore di Berlino. In concomitanza con l’uscita del video della traccia Aeropain, girato a Vasto, abbiamo intervistato il giovane musicista abruzzese. Un personaggio enigmatico vaga attraverso un paesaggio di boschi e spiagge deserte, portando con sé una striscia rossa apparentemente infinita legata alla vita. A confine tra l’immaginario e il reale come in una corsa senza fine si sposta da un luogo all’altro incontrando strani oggetti. Un ritorno alle origine per un’artista che ama la sua terra anche da lontano.

Come è nata la tua passione per la musica? In particolare quella elettronica? La passione per la musica è nata molto prima di quella per l’elettronica. Credo che questo interesse nasca e vada in parallelo con una certa necessità di riconoscersi in qualcosa. Difatti, mi sono ritrovato completamente nell’attitudine di molte band e artisti che amavo da adolescente e quell’energia che trasmettevano mi ha fatto capire quanto potessi esprimermi musicalmente, creare qualcosa di mio. Ci sono voluti anni prima che fossi soddisfatto di quello che stavo facendo e nel frattempo avevo maturato un crescente interesse verso certa “strumentazione elettronica” che mi permetteva di allargare lo spettro di possibilità e avere pieno controllo su quello che stavo facendo. Da lì penso di aver semplicemente seguito la volontà di comporre, cercando di rimanere lucido e oggettivo senza mettermi paletti o ragionare per pregiudizi.

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La Germania è la culla di molti pionieri della electronic e techno music e continua a portare alla ribalta nuovi talenti. Quali sono le ultime frontiere in campo di sperimentazione musicale? Come ti sei inserito in questo contesto musicale avanguardistico? La scena emergente tedesca è davvero vasta, non necessariamente più grande di quella italiana ma sicuramente più riconosciuta. L’avanguardia italiana non ha nulla da invidiare a quella tedesca, la differenza sostanziale sta nel modo in cui la società vede questa scena. In Germania è molto più facile esibirsi in club e locali, ci si può dichiarare musicisti ed esser presi sul serio, come un qualsiasi altro professionista. In Italia è più difficile che artisti emergenti vengano riconosciuti per il proprio lavoro senza avere un nome alle spalle, di conseguenza c’è meno fermento e meno visibilità. Tutto questo per dire che inserirsi nella scena tedesca è stato relativamente facile, basta essere sicuri di quello che si sta facendo e seguire la giusta motivazione. Prima o poi uno spazio viene dato. Per quanto riguarda le ultime frontiere nella sperimentazione non saprei proprio che dire, l’avanguardia si è spinta così oltre che oscilla dal geniale a parodia di sè stessa.

Quanta Italia c’è nella tua musica? Molta, anche se ad un primo ascolto è difficile notarlo. L’Italia è stata una grande fucina di artisti a cavallo dei ’70/’80. Oltre al pluricitato Giorgio Moroder c’è tutta una schiera di musicisti che spazia dal synthpop (es. i Matia Bazar di “Tango”), alla famigerata italodisco (La Bionda, Charlie, Koto etc.), fino alle sperimentazioni di band quali i Chrisma. Tutti questi artisti hanno avuto la loro parte nella gestazione dell’album.

Pensi che a volte fare un tipo di musica più sperimentale e antitradizionale può risultare di nicchia? Sicuramente può risultare di nicchia, ma credo che questo sia un problema che viene ridotto con i nuovi mezzi di comunicazione. Sono convinto che qualsiasi movimento di nicchia, se innovativo, può formare il gusto delle generazioni a venire. I grandi nomi della musica difficilmente hanno rivoluzionato qualcosa a livello stilistico: sono stati solo il canale di diffusione maggiore per sonorità che già esistevano nella scena underground. Le hit da classifica in molti casi lasciano il tempo che trovano, mentre agli innovatori si farà sempre riferimento e l’apprezzamento verso il loro lavoro diverrà crescente con gli anni. Sicuramente non accade nel 100% dei casi, ma questo è lo schema che applico quando devo pensare alla dicotomia mainstream/underground. Con questo non voglio dire che tutto ciò che è di nicchia è apprezzabile (anzi!) e in alcuni casi mi trovo ad ammettere che alcuni brani da classifica hanno davvero una produzione ammirabile.

Copycat Club: il tuo progetto elettronico. Perché questo nome? Cosa ti aspetti da questo lavoro? Mi è sempre piaciuto il concetto di “copycat” per la sua versatilità, può adattarsi tanto al mondo del marketing quanto alla criminologia – l’idea di un elemento che piazzato in diversi contesti acquista diverse connotazioni mi sembrava rispecchiasse quello che volevo dalla mia musica. Di base un copycat è un emulatore, qualcosa che cerca di sfruttare la popolarità di altri per farla propria (può essere un’azienda che copia il modello di un’altra di successo o un personaggio che prende spunto da celebri fatti di cronaca per esser più visibile). Da questo lavoro mi aspettavo la creazione di una rete di interazioni con le realtà emergenti con cui sono entrato in contatto, oltre a raggiungere un maggior numero di ascoltatori e diffondere la mia musica. Finora l’obiettivo pare raggiunto e la soddisfazione di vedere quanto sia valido il materiale creato dalle persone coinvolte mi ha già largamente ripagato di tutto il lavoro e le energie spese nel progetto.

Il 31 maggio è uscito il tuo primo disco. Cosa hai voluto raccontare con i tuoi brani? Chi ha collaborato alla realizzazione del cd? È dal 2011 che vivo qui a Berlino e nel corso degli anni ho avuto modo di conoscere persone che hanno lasciato l’Italia e hanno dovuto ricominciare da zero in un contesto completamente nuovo, con una lingua che ad un primo impatto è più che ostica. Io e molte persone coinvolte nel progetto facciamo parte di una generazione che è dovuta andar via dal proprio paese per perseguire i propri sogni e costruirsi un futuro. Berlino ti offre molte possibilità, ma allo stesso tempo è come un continuo carosello: puoi letteralmente perdere la bussola e vivere in un paese dei balocchi se non prendi coscienza di quello che realmente vuoi dalla città. Da tempo portavo con me questa dicotomia e questo senso di smarrimento. Il tutto vissuto in una città che sta cambiando a una velocità incredibile. Ho messo tutto questo nel mio primo album e ho coinvolto grafici, videomaker e altri artisti incontrati in questa città per creare una sorta di collettivo che ruotasse attorno all’uscita del disco. Ho visto in loro parte di quello che stavo vivendo e ho pensato che era il momento di creare qualcosa di originale. A lungo ci siamo ritrovati a posporre quello che realmente volevamo e ho sentito che era il momento per ognuno di esprimersi a pieno. Per questo ogni videomaker ha avuto carta bianca e totale libertà espressiva riguardo al videoclip sul quale stava lavorando.

Quale è la traccia che più ti rappresenta? Non c’è una traccia in particolare che mi rappresenta più di altre, ogni pezzo esprime una piccola parte di quello che vivevo al momento della composizione. Potrei forse citare “Ganz Berlin” come esempio palese di quanto la città sia presente all’interno del disco, ma lo fa semplicemente in maniera più didascalica rispetto al resto dei brani dell’album.

Gestazione brani. Quale è il rapporto che crei tra lo strumento e il concetto che dovrai esprimere attraverso il suono? Nel periodo precedente alla preparazione dell’album mi sono buttato a capofitto nella costruzione di un mio sintetizzatore, che poteva adeguarsi al meglio al tipo di sonorità che cercavo. Creando questo rapporto con lo strumento è venuta fuori la struttura principale di tutto il disco, con suoni e atmosfere che hanno stupito me per primo, dato che fino ad allora avevo lavorato con strumentazione più “tradizionale”. Direi che il suono è venuto prima di qualsiasi tipo di concetto o intenzione premeditata sul tema del pezzo. Per la scrittura dei testi ho letteralmente fatto mente locale e riascoltato le varie composizioni strumentali per rendermi conto di quali erano le cose che stavo pensando e cercando di esprimere. In sostanza non è tanto come esprimere un concetto con dei suoni, ma capire quale concetto stavo inconsciamente descrivendo con le varie composizioni.

Rapporto video/brani. Anche i video sono chiara espressione della sperimentazione musicale. Come si correla l’immagine giusta al sound giusto? Questa è una domanda che andrebbe fatta a chi si è occupato della realizzazione dei video. Quello che posso dire è che ho lasciato agli artisti totale libertà, dando loro modo di farsi influenzare dalla musica cercando di rendere in immagini l’atmosfera che il pezzo ispirava. Tutti hanno lavorato usando tecniche diverse (ci sono video di animazione, di taglio documentaristico, visual) e tematiche più o meno coerenti tra loro. Non penso ci sia il criterio perfetto, alle volte le immagini funzionano molto bene per la similitudine con il pezzo, altre volte è proprio il contrasto a dare quel “più” al video.

Dal 15 giugno è online un video girato a Vasto, un ritorno alle origini abruzzesi. Hai scelto tu questa località? Perché proprio una città dai colori e profumi estivi lontana dall’ underground berlinese? Questa località è stata scelta da Federico Faini, responsabile per il video di “Aeropain”, ed è in pratica la sua città d’origine. Il pezzo usato per il video è abbastanza atipico rispetto al resto del disco e ha fatto scaturire in Federico una serie di paesaggi e scene che bene si adattavano alla natura dei luoghi presenti nel video. Sono felice abbia portato un po’ d’Abruzzo all’interno di questo progetto, spesso chi si sposta e va all’estero tende a snobbare i luoghi da cui è partito, cercando di crearsi un’identità fittizia. Il pezzo parla dell’esperienza di trovarsi in volo, in particolare in un aereo. Vuole descrivere la sensazione di essere in un non-luogo, sulle nuvole, a metà tra un luogo e l’altro e comunque lontano da entrambi. Mi piace pensare che l’Abruzzo presente in questo video colmi un po’ la distanza che c’è tra me e i luoghi da cui sono partito.

@baldaroberta

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