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Bellezza, fragilità e talento: Francis Scott Fitzgerald e sua moglie Zelda #LetteraturaLive

Roberta Di Pascasio di Roberta Di Pascasio
23 Aprile 2021
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LetteraturaLive. Il passato letterario è ricco di grandi storie d’amore, pensiamo ad Alberto Moravia con Elsa Morante o Dacia Maraini, a Simone de Beauvoir con Jean Paul Sartre, a Dino Campana e Sibilla Aleramo. Ma com’era la loro vita insieme, al di là della letteratura?

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Nei primi anni del ‘900 Francis Scott Fitzgerald e sua moglie Zelda rappresentano una delle coppie più ammirate e al contempo più fragili e inquiete. È il 1918 quando si conoscono a una festa in Alabama: lei ha soltanto diciotto anni, è una ragazza del sud cresciuta in un ambiente conservatore – il padre è un giudice influente e severo – eppure ama la danza, beve, fuma, sfida le regole; lui ne ha poco più di venti, è sottotenente dell’esercito, ha lasciato gli studi e si è arruolato volontario. Guardarla danzare è un colpo di fulmine per lui, che la corteggia e la incanta con le sue parole. Ma non riesce a sposarla subito; solo quando finalmente un editore accetta di pubblicare il suo primo romanzo “Di qua dal Paradiso”, che ottiene subito un grande successo, lei dirà di sì: adesso non è più un aspirante scrittore squattrinato, visto che anche i suoi racconti cominciano ad essere pagati e pubblicati nelle riviste. È un momento magico per Fitzgerald; lo incanta tutto di lei, soprattutto ne ammira lo spirito ribelle, il coraggio, “la fiammante autostima”, tanto che Zelda sarà l’ispirazione per tutti i suoi personaggi femminili: figure irrequiete, affascinanti ma anche instabili e fragili.

Nei ruggenti anni ‘20 a New York è la coppia più seguita e invidiata, le riviste di costume parlano del giovane scrittore e della moglie bella e anticonformista che passano le giornate tra giochi, sbronze, viaggi e feste sfavillanti in cui, nonostante il proibizionismo, l’alcol scorre a fiumi. Il successo editoriale di lui continua con il secondo romanzo “Belli e dannati”, e permette loro una vita mondana vivace e trasgressiva ma troppo dispendiosa, tanto che decidono di trasferirsi in Europa per limitare le spese eccessive. Con “Il grande Gatsby”, pubblicato nel 1925, la fama dello scrittore raggiunge il suo apice. Hanno davvero tutto – bellezza, gioventù, voglia di vivere – eppure il loro rapporto inizia a incrinarsi: Zelda vuole scrivere, danzare, conquistare l’autonomia economica, Fitzgerald esagera con l’alcol, è infastidito dalle mire letterarie della moglie.

In realtà entrambi covano profonde fragilità e contraddizioni: lui è diviso tra la tendenza alla totale dissoluzione e il rigore cattolico con cui è cresciuto, tra un alto ideale artistico e la necessità di scrivere raccontini e novelle soltanto per soldi; lei è una donna emancipata, desidera la libertà artistica, l’indipendenza economica, soddisfare il suo ego inappagato, ma al tempo stesso ha un bisogno viscerale di essere amata, di vivere in un nido sicuro che la protegga. Queste spinte contrapposte sono devastanti per entrambi. Zelda dà segni d’irrequietezza sempre più frequenti e, quando viene ricoverata per la prima volta in una clinica psichiatrica per esaurimento nervoso, la diagnosi è terribile: schizofrenia; Fitzgerald continua a bere molto, è senza soldi, sente ondeggiare sopra di sé la spada di Damocle del fallimento. In clinica Zelda scriverà il suo unico romanzo “Lasciami l’ultimo valzer”, una storia autobiografica e critica sulla loro vita; lo scrittore ne è irritato e risponderà con “Tenera è la notte”, che racconta la bella vita degli americani in Francia dopo la guerra. Stavolta l’accoglienza è deludente, la critica negativa e le vendite scarse. In fondo troppe cose sono cambiate: dopo il crollo della Borsa nel ’29, la grande depressione e la crisi economica e sociale, l’America è un paese impoverito, fiaccato dalla sfiducia, e non prova più interesse per le feste e le baldorie di una manciata di ricchi lungo la costa Azzurra. Negli anni seguenti Zelda ha spesso attacchi di panico, esplosioni di violenza, tenta ancora il suicidio; Fitzgerald ha problemi di salute, pochi soldi e sfoga le frustrazioni nell’alcol finché nel 1940, a poco più di quarant’anni, muore d’infarto a Hollywood dove era andato a tentare la carriera da sceneggiatore, mentre lei morirà otto anni più tardi nell’incendio della clinica in cui è ricoverata.

Una storia bella e amara. Un rapporto delicato e controverso il loro, corroso da competizione, gelosia, delusioni. Fitzgerald sarebbe diventato ancora più grande senza di lei? Oppure non avrebbe avuto la sua musa ispiratrice? Chissà. L’unica certezza è che hanno vissuto all’ombra delle loro contraddizioni e debolezze, eroi della fragilità li definì una volta Fernanda Pivano. La fragilità di un’età adulta stremata da alcol, difficoltà economiche, malesseri fisici, dopo “l’infinità di rosei pensieri e di sogni” che la giovinezza aveva promesso loro. Una promessa che non ha mantenuto. Come fa spesso, d’altra parte.

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