Chieti. Quello che è accaduto nei giorni scorsi in Romagna riporta in primo piano l’esigenza assoluta di rispettare il territorio evitando di aumentare il carico antropico a ridosso dei fiumi.
Per quanto riguarda la nostra zona è evidente che le recenti alluvioni rafforzano la posizione di chi da anni si batte per evitare ulteriori colate di cemento lungo le sponde del fiume Pescara. WWF Chieti-Pescara, Confcommercio, Confesercenti e CNA ricordano che l’unica soluzione per evitare futuri possibili disastri è quello di prevenirli, nel caso specifico impedendo una volta per tutte (attraverso una legge regionale e/o regolamenti urbanistici comunali) che si possa costruire a ridosso dei fiumi.
La cancellazione di fatto delle area di esondazione naturali con l’occupazione cementificatoria delle sponde crea danni enormi in caso di piene eccezionali, che accadranno sempre più spesso a causa dei cambiamenti climatici in corso. E le casse di espansione artificiali, a parte l’enorme costo economico per la collettività, sono di gran lunga meno efficaci e più complesse da gestire. Nel caso del Pescara il rischio è enorme, anche perché si riverserebbe più a valle su aree intensamente abitate sino al capoluogo adriatico che ha tante abitazioni e attività sulle due sponde del fiume di cui porta il nome.
Senza dimenticare il rischio frane: le pendici delle colline sono state sovraccaricate e ora in molti casi stanno cedendo. A Bucchianico è accaduto con le recenti piogge, a Chieti si pensa di riedificare nel medesimo posto un edificio recentemente abbattuto perché lesionato da una frana!
La fragilità ambientale del nostro Paese è ben nota: su 302.068 km2 di territorio il 18,4% (55.609 km2), quasi un quinto, è mappato nelle classi a maggiore pericolosità per frane e alluvioni (dati ISPRA: https://www.isprambiente.gov.it/it/attivita/suolo-e-territorio/dissesto-idrogeologico).
La pericolosità, sarà bene ricordarlo, indica la possibilità che un evento accada; diventa rischio quando si devono calcolare i danni che quell’evento può provocare. In altri termini il rischio nasce in toto dall’intervento umano quando vengono realizzati edifici e strutture in zone ad alta pericolosità. Nel nostro Paese è accaduto spesso, in un remoto passato quando la conoscenza delle dinamiche idrogeologiche non era adeguata, ma anche nel passato recente e recentissimo, a dispetto dei dati sempre più completi a disposizione. Il risultato è che abbiamo peggiorato enormemente la situazione: secondo ISPRA, che redige periodicamente un rapporto sul dissesto idrogeologico in Italia, nel 2021 l’11,5% della popolazione, il 10,7% degli edifici, l’11,8% delle famiglie, il 13,4% delle industrie e dei servizi e il 16,5% dei beni culturali erano soggetti a un forte rischio alluvioni e percentuali preoccupanti riguardavano anche il rischio frane. Dati riferiti a due anni fa ma che certamente non sono nel frattempo migliorati.
A fronte di questa situazione la prima regola dovrebbe essere quella di non costruire più nulla in aree potenzialmente pericolose, di delocalizzare tutto quello che si può liberando la fasce di territorio maggiormente soggette a frane e alluvioni, di rinaturalizzare i fiumi… invece si continua ad agire all’incontrario, salvo poi essere costretti a inseguire le emergenze. Davvero la classe politica abruzzese non è in grado di cambiare passo e di tornare a perseguire i veri interessi della collettività?