Roccaraso. È qualcosa di più di una leggenda di guerra, che aleggia sugli Altipiani Maggiori d’Abruzzo e che riporta all’epoca oscura del periodo bellico, alla violenta presenza delle truppe tedesche sulla Linea Gustav, alla distruzione totale di Roccaraso e di tanti altri Paesi rasi al suolo dai nazisti per la tattica della “terra bruciata”. Una distruzione preceduta in modo sistematico dalla razzia, non solo dei beni di prima necessità per i soldati ma anche degli averi che le famiglie ricche avevano trasferito da Napoli e da Roma nelle loro dimore montane in Abruzzo, convinti di averli portati in salvo in luoghi lontani anni luce dai bombardamenti e dalla follia della guerra. Peccato che i tedeschi, per realizzare la Linea Gustav fortificata, pensarono di sfruttare proprio la barriera naturale costituita dalle vette appenniniche e per le popolazioni di quei paesi nell’autunno del 1943 arrivò l’inferno in terra.
Tra sfollamento e “terra bruciata”. I gioielli furono nascosti come meglio si poteva, prima di sfollare sotto la minaccia delle armi naziste. Così spesso li arraffarono gli ufficiali e le truppe tedesche mentre minavano e abbattevano una casa dopo l’altra. Non sarebbe stato facile, però, girare in zona di guerra portandosi dietro quei preziosi bottini. Per questo a loro volta, prima di ritirarsi dall’Abruzzo nel giugno del 1944, i militari germanici occultarono diversi tesori, appuntandosi i punti di riferimento e ripromettendosi di tornare a prenderli in momenti più propizi. È questo lo scenario in cui matura la vicenda del tesoro di Roccaraso. Una storia ricostruita dettagliatamente nel 2005 dallo studioso Ugo Del Castello nel suo libro “1943, Roccaraso kaputt!”. Eccone in sintesi le tappe principali. Nel 1952 un detenuto di nome Bruno Canton, rinchiuso nella Colonia Agricola di Capraia in Toscana, decise di rivelare ad un agente di custodia che «nei pressi di Roccaraso si trova un tesoro nascosto dai tedeschi durante gli eventi bellici».
Dalla Questura dell’Aquila fu subito inviato sul posto il Commissario Aldo Giordano per sentire il detenuto. Interrogato il primo maggio del 1952, Bruno Canton raccontò che mentre nel 1950 lo stavano trasferendo dalle carceri di Pordenone (dove scontava una pena per concorso in rapina) alla Colonia Agricola di Capraia, aveva fatto sosta dal 22 al 27 ottobre nel carcere di Bologna. Qui aveva conosciuto un tedesco di nome “Walter” e, conoscendo la lingua per aver lavorato in Germania, aveva iniziato a conversare con lui. Entrati in confidenza, Walter gli aveva rivelato di essere stato un Capitano delle SS e di aver fatto parte di un reparto “sceltissimo” con compiti di vigilanza e controllo. Precisò anche di essere stato condannato all’ergastolo come criminale di guerra, ma allo stesso tempo «manifestò la speranza di poter riottenere la libertà di lì a 7 o 8 anni». Il detenuto italiano, però, sarebbe uscito prima (finendo di espiare la pena nel 1955) e per questo l’ufficiale tedesco decise di fargli una rivelazione: alla vigilia della ritirata dall’Abruzzo nel 1944, insieme ad altri due militari tedeschi, aveva occultato un tesoro nella zona di Roccaraso. In seguito gli altri due erano deceduti e lui era rimasto l’unico depositario del segreto.
Si trattava di una cassa di legno con cerniere metalliche, colma di «oggetti d’oro tolti alle chiese di Roccaraso nonché gioie di ingente valore portate via da Roma e comprendenti gioielli già di pertinenza di una Principessa della Casa Reale Savoia». La cassa «era stata tolta a un Conte della zona, persona in vista di Roccaraso». Il tutto era stato occultato «nella zona in cui era piazzata una batteria della Flak (artiglieria contraerea germanica) a 4 o 5 km da Roccaraso, nei pressi di una zona boscosa». Inoltre «vicino alla batteria c’era una baracca di legno adibita a deposito delle munizioni. Il tesoro era stato collocato in una buca profonda due o tre metri e scavata sul pavimento di terra della baracca». A difesa del tesoro erano state piazzate «due mine anticarro ad alto potenziale ai due lati della cassa». Bruno Canton disse che non aveva ricevuto informazioni più precise sulla localizzazione, ma «il Walter parlava con tanta sicurezza della batteria contraerea da far ritenere che fosse piazzata in un luogo perfettamente e facilmente individuabile». Dunque i due strinsero un patto, scambiandosi i recapiti, per tentare l’operazione di recupero una volta tornati liberi. Con il passare del tempo il detenuto italiano si era quasi dimenticato della promessa quando, nell’estate del 1951, scorrendo le pagine del settimanale “Oggi” si ritrovò a leggere un articolo che riferiva della ricerca di un tesoro nascosto dai tedeschi. Immediatamente gli tornò alla mente la rivelazione di Walter. Così, sperando di ottenere qualche tornaconto giudiziario o un premio in denaro, si convinse a rivelare tutto ad un agente della Colonia Agraria di Capraia.
Solo due mesi dopo l’interrogatorio di Canton – come riferisce sempre Ugo Del Castello nel suo libro – la Prefettura dell’Aquila il primo luglio 1952 certificò che «le asserzioni del detenuto circa l’esistenza di un tesoro a Roccaraso sono risultate infondate»: nessun ufficiale tedesco era nelle carceri di Bologna tra il 21 e il 24 ottobre 1950; mentre nel carcere militare di Bologna «si trova ristretto sin dal 1948 l’ex ufficiale tedesco Walter Reder». Ma Questura e Carabinieri di Bologna «escludono che abbia potuto comunicare con il detenuto Bruno Canton». Anche le indagini sul campo per cercare di identificare il luogo descritto come nascondiglio del tesoro «sono riuscite infruttuose»: essendo stato sfollato il Paese di Roccaraso non ci sono testimonianze dirette sull’ubicazione delle postazioni contraeree che, per altro, erano «numerose» e «venivano continuamente spostate per ragioni di sicurezza». Dunque: «Esito negativo» e caso ufficialmente chiuso.
Va segnalato, però, che nel dopoguerra – come riporta Del Castello – a Roccaraso e Pietransieri furono visti circolare dei personaggi tedeschi con atteggiamenti equivoci. Si notarono delle persone scavare, ad esempio, nel giardino del Grande Albergo (sorto sulle vestigia dell’Albergo Reale e vicino a quelle dell’Albergo Savoia e del Villino d’Avalos). C’è poi un episodio che fu riferito ad Ugo Del Castello dalla madre, avvenuto verso la fine degli anni Sessanta lungo la strada che porta al cimitero di Roccaraso: un giorno d’estate, di ritorno in paese, si era imbattuta in un uomo «che sicuramente non aveva l’aspetto di un italiano» seduto sul parapetto in cemento a bordo via. La donna si era spaventata e aveva tirato avanti.
«Qualche giorno dopo tornai al camposanto – raccontò al figlio – e lungo la strada incontrai Carlo Carmosino, il custode del cimitero, che era intento a verificare una cassa in legno rivestita di lamiera tutta arrugginita e sfondata. A fianco si notava il terreno scavato. Carlo esprimeva una incontenibile meraviglia per quella cassa, apparsa all’improvviso in un luogo a lui troppo familiare. Non riusciva a darsi pace, gli girava intorno e si chiedeva chi l’avesse scavata e che cosa avesse potuto contenere. Carlo non era di Roccaraso e quindi non poteva arrivare a pensare ai tedeschi. Collegai subito la scoperta di quella cassa all’incontro con l’uomo seduto qualche giorno prima sul parapetto e arrivai alla conclusione che quello poteva essere un tedesco, anzi lo era sicuramente, ne avevo visti tanti e non potevo sbagliarmi».ù
Forse, aggiunse la donna, «il tedesco fu anche sorpreso di aver trovato vicino il cimitero che un tempo non c’era». Il nuovo camposanto di Roccaraso si trova sotto il Colle Tre Croci, dove i tedeschi avevano installato una stazione radio difesa da nidi di mitragliatrici. Un luogo strategico per il controllo della strada che sale da Castel di Sangro e del valico. Per questo sulla piccola distesa pianeggiante sotto il colle era stata piazzata anche una batteria di artiglieria. Il luogo però è troppo vicino al paese per corrispondere alla descrizione fatta dal misterioso Walter. La distanza – descritta in «4 o 5 km da Roccaraso» – appare insufficiente anche per poter prendere in considerazione la batteria contraerea tedesca sulle pendici del Monte Zurrone.
Ma adesso è spuntata fuori a sorpresa un’altra pista: alcuni studiosi hanno rintracciato infatti sul n. 9 del 1944 della rivista militare tedesca “Luftflotte Süd” due pagine fotografiche con l’eloquente titolo “Flaküberall!” (ovvero “Flak ovunque!”). Tra le immagini pubblicate, almeno tre sembrano riferite alla zona degli Altipiani Maggiori d’Abruzzo. Una in particolare, con la didascalia “Im Gebirge”, ovvero l’utilizzo della Flak “in montagna”, mostra una postazione rialzata con sfondo di vette innevate; mentre le altre due raffigurano una postazione su un carro ferroviario e un caccia Alleato «abbattuto dalle raffiche di fuoco di un quadruplo cannone antiaereo».
La foto della Flak, ad un esame più attento, ha rivelato avere come sfondo le pendici del Monte Porrara, con il colle dell’antico insediamento di Forca Palena che sovrasta la stazione ferroviaria di Palena – all’epoca snodo nevralgico della Linea Gustav – e la lunga cresta Sud cosparsa di postazioni tedesche. E questa contraerea, guarda caso, si trovava ad una distanza di poco più di 5 chilometri da Roccaraso. Così nel prossimo mese di agosto – seguendo le foto storiche, collimandole con quelle satellitari attuali e battendo passo passo il territorio – lo stesso Ugo Del Castello e Lorenzo Grassi (giornalista-ricercatore che cura il sito lineagustav.org e, dopo aver censito quasi 400 postazioni tedesche, è stato appena nominato componente del Comitato Tecnico-Scientifico Maiella UNESCO Geopark come esperto della Linea Gustav) andranno a caccia dell’esatta localizzazione della Flak. Sperando di trovarne ancora qualche flebile traccia sul terreno e, magari, di scoprire qualche riscontro che consenta di verificare l’eventuale veridicità dei racconti sul leggendario tesoro di Roccaraso.
Ma quali gioielli potrebbero esservi nascosti? L’ultima visita di un Savoia sugli Altipiani Maggiori d’Abruzzo avvenne il 7 luglio 1943 per un’ispezione del Principe di Piemonte Umberto II agli allievi ufficiali dell’Aquila in esercitazione a Rivisondoli. Poi si recò a mangiare a Roccaraso, dove spesso la famiglia reale era stata di casa. Il pensiero va ai diademi e agli anelli della Principessa Mafalda, morta il 28 agosto 1944 nel campo di concentramento nazista di Buchenwald. Ma il suo tesoro fu sotterrato dentro una scatola di biscotti in un bosco del parco romano di Villa Savoia e recuperato nel 1944 dopo l’arrivo degli Alleati nella Capitale.
Altro riferimento possibile è quello del 6 settembre 1943 quando il Re Vittorio Emanuele III – prima di fuggire da Roma – ordinò di mettere al sicuro i gioielli del “Tesoro della Corona” che sino ad allora erano stati custoditi nella cassaforte n. 3 del Quirinale. Furono così trasferiti alla Banca d’Italia in un caveau di sicurezza. Ma non per molto. In breve la situazione peggiorò: l’Italia fu occupata dai nazisti che non si fecero scrupoli ad impossessarsi di qualsiasi cosa di valore, beni dei Reali compresi. Un ufficiale tedesco mostrò alla Ragioneria italiana un ordine scritto dal Führer in persona che intimava la consegna del tesoro. Ma la risposta fu pronta: «Il Re fuggendo ha portato tutto via con sé». E quando i tedeschi ispezionarono la cassaforte del Quirinale la trovarono vuota.
Dove erano stati occultati i gioielli? Secondo alcune fonti in una nicchia murata su una parete del cunicolo sotterraneo cinquecentesco che collega il Quirinale con Palazzo Barberini; secondo altre, in una grotta chiusa con il cemento nei cunicoli scavati sotto la sede stessa della Banca d’Italia in via Nazionale in un luogo a conoscenza solo dell’allora Governatore Azzolini e del muratore Enrico Fidani. Dopo la Liberazione di Roma, i primi di giugno del 1944, il “Tesoro della Corona” fu riconsegnato al Re e alla Regina, che erano ancora legittimamente in carica. Nel 1946, dopo l’esito del referendum tra Monarchia e Repubblica, il Re Umberto II lo diede “in affidamento” al nuovo Governatore di Bankitalia, Luigi Einaudi. Ora – custodito nei caveau di via Nazionale – è al centro di un interminabile contenzioso tra Stato italiano e Casa Savoia. Ma questa è un’altra storia.