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Delitto di Garlasco: le lesioni sugli occhi di Chiara Poggi ci rivelano le motivazioni dell’omicida?

Luca Marrone di Luca Marrone
11 Agosto 2025
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Pavia. Il circo mediatico nato a ridosso della nuova indagine sul delitto di Chiara Poggi, uccisa a Garlasco il 13 agosto 2007, sembra concedersi qualche giorno di vacanza a ridosso di Ferragosto, anche se possiamo star certi che il 13 del mese non mancheranno articoli e interventi assortiti che daranno debito conto della ricorrenza.

Tifoserie

In questi mesi si sono registrate, con un’intensità francamente anomala persino per un Paese in cui le vicende di cronaca nera vengono da sempre vissute nella prospettiva della tifoseria sportiva, vivaci e spesso polemiche contrapposizioni tra opposte visioni del caso, da parte dei cosiddetti esperti e di coloro che, nonostante la disinvolta sicurezza ostentata, proprio esperti non sembrerebbero.

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Certo, un fenomeno socio-culturale e mediatico che meriterebbe di essere analizzato, al di là delle problematiche giudiziarie e investigative direttamente correlate al delitto. Un fenomeno multiforme, che ha visto in particolare crescere esponenzialmente la frenesia dei quotidiani on line di pubblicare ogni giorno numerosi articoli sul caso, anche soltanto per nominare chi vi è coinvolto, senza alcuna effettiva giustificazione giornalistica (“dov’è la notizia?”, mi esortava sempre a chiedermi il caporedattore del giornale dove ho mosso i primi passi come cronista, per comprendere ciò che meritava effettivamente la pubblicazione), al solo evidente scopo di accrescere le visualizzazioni e far contenti gli sponsor.

Accanto a questo, l’esasperazione di quella che potremmo definire la “narrazione delle scienze forensi”, che ha visto i suddetti esperti (e meno esperti, con la sola risorsa dell’apparente sicurezza in se stessi) pontificare sussiegosi sulle modalità di esame della scena del crimine, di raccolta e conservazione delle tracce materiali del reato, sulle possibili interpretazioni di fotografie che ritraggono impronte slatentizzate diciotto anni fa, sull’eventuale riconducibilità del delitto a determinati soggetti e contesti di riferimento, etc.

Anche noi abbiamo un’opinione su questi e altri aspetti del caso. Anche noi, attingendo a quel poco di esperienza maturata in ambito criminologico in circa venticinque anni di silenziosa pratica nel settore, abbiamo azzardato interpretazioni e valutazioni. Pur manifestando da sempre non poche perplessità sulla condanna definitiva inflitta per l’omicidio (oggetto nel 2015 di un nostro corso universitario di analisi investigativa, mirato a individuare scenari alternativi, oggi effettivamente ventilati), ci siamo astenuti dal condividere il tutto in modo esplicito. Tra l’altro, perché non ci sentiamo di concorrere, a nostra volta, al suddetto circo mediatico, in cui viene considerato più autorevole chi urla di più e chi formula incautamente accuse più esplicite.

Un ulteriore aspetto del multiforme fenomeno di cui si è detto è costituito dall’interattività: ormai l’indagine (mediatica, non giudiziaria) sembra alimentarsi anche dei contributi degli utenti dei social network, che a loro volta condividono ipotesi, sospetti, analisi “criminologiche”, con profusione di emoticon e commenti non di rado indignati, rabbiosi e persino insultanti, che investono anche coloro che le varie reti televisive invitano puntualmente a conversazioni salottiere sul delitto.

Conseguenza della libertà operativa garantita dall’ormai irreversibile presenza, nelle nostre vite, della Rete. Ma, in termini di effettiva, approfondita conoscenza dei fenomeni, riteniamo lecita qualche perplessità: nella maggioranza dei casi, valutazioni e commenti del pubblico non si basano su uno studio approfondito del delitto – evidentemente possibile solo attraverso l’esame dei relativi atti, non necessariamente disponibili – e non fanno altro che perpetuare una visione dello stesso superficiale, semplicistica, stereotipata e umorale, con inevitabile approdo a conclusioni parimenti inadeguate. Con ciò, ovviamente, non si auspicano limitazioni alla libertà di manifestazione del pensiero, si tenta solo di rimarcare come tale libertà richiederebbe, in chi ne usufruisce, consapevolezza, misura, prudenza e umiltà, virtù non esattamente popolari al giorno d’oggi.

Le lesioni sugli occhi di Chiara

In attesa che il clamore sulla vicenda torni a pieno regime e che si ripresentino le già sperimentate difficoltà nel tener dietro, a livello giornalistico, al fiume in piena dei quotidiani sviluppi, veri o presunti, ci concediamo qualche breve e incompleta riflessione su un aspetto del delitto in particolare: i tagli rivenuti, in sede di esame autoptico, sulle palpebre di Chiara Poggi. Lo facciamo perché siamo stati tra i primi – come si dice, in tempi non sospetti – a recuperare questo particolare dall’originaria inchiesta. Lo abbiamo fatto, per la precisione, in un pezzo pubblicato il 15 giugno scorso. In seguito ne ha parlato, in un’intervista a Gente, la dottoressa Luisa Rigimenti, docente di medicina legale presso l’Università di Tor Vergata e, in breve, il dato è divenuto oggetto di valutazione da parte di criminologi, criminalisti, giornalisti, ex poliziotti, youtuber, etc. Ne siamo lieti, perché i riscontri successivi ci confermano nell’idea che un elemento del genere – in apparenza non eclatante – possa costituire un aspetto significativo del caso, potenzialmente idoneo a rivelare qualcosa dell’omicida o degli omicidi, dei loro tratti personologici e delle loro possibili motivazioni.

Torniamo in breve a quanto registrato in proposito dal medico legale in sede di autopsia. Per la relazione tecnica si riscontrano lesioni sulle palpebre superiori della vittima, “una per lato, prevalentemente trasverse, che evocano una superficiale violenza con un mezzo dotato di un filo piuttosto tagliente e/o di una punta acuminata che abbia superficialmente strisciato sul tegumento palpebrale.”

Criminal profiling

Per comprendere in che modo tali aspetti possano essere sottoposti a una valutazione criminologica è necessario premettere alcuni cenni sul criminal profiling. Com’è noto, si tratta di un tipo di analisi che, prendendo le mosse dalle tracce materiali del delitto e dell’iter criminis, tenta di individuare alcune caratteristiche personologiche (tratti fisici, psicologici, comportamentali, motivazionali) del cosiddetto offender, quello che l’F.B.I. – artefice del primo modello codificato di profiling – definisce “unknown subject”, “soggetto ignoto”.

Le risultanze materiali del reato, presenti sulla scena del crimine e sulla vittima vengono quindi analizzati alla luce di determinate categorie concettuali: 1) la classificazione organizzato-disorganizzato: mira a valutare il modo in cui il soggetto ignoto ha concretamente gestito l’interazione con la vittima e con la scena: se ha premeditato il delitto, ha agito d’impeto, ha perso il controllo nel corso di un’azione pianificata, etc.; 2) il modus operandi: la strategia operativa razionale, mirata a ottenere uno specifico risultato, soggetta a eventuale evoluzione in caso di reiterazione della condotta; 3) la cosiddetta personation: un atto o una serie di atti gratuiti, non strettamente necessari al compimento dell’azione criminosa e espressione, piuttosto, di motivazioni “irrazionali” e simboliche o di fantasie dell’offender: per porle in essere, l’autore del delitto può giungere a trattenersi sulla scena più del necessario, rischiando la cattura; 4) lo staging: la deliberata, consapevole e razionale alterazione della scena per impedire l’identificazione della vera natura e causa dell’azione criminosa o, comunque, del decesso.

Nel nostro caso, le lesioni riscontrabili sulle palpebre di Chiara Poggi sembrerebbero riconducibili alla categoria della personation, espressione quindi di atti gratuiti, non necessari a causare la morte della vittima. Ci dicono quindi qualcosa del soggetto o dei soggetti che le hanno inflitte e delle possibili motivazioni sottese al delitto?

Qualcuno, in questi giorni, ha ipotizzato che Chiara possa essere stata sottoposta a sevizie, a dimostrazione dell’indole spietata e sadica dell’offender, che non avrebbe esitato a procurare alla vittima atroci sofferenze prima di toglierle la vita. Ovviamente si tratta di una delle possibili ipotesi e, in un lavoro di indagine accurato e completo, è necessario vagliarle tutte.

Qui cercheremo di prenderne in considerazione anche altre, con tutta la prudenza e la cautela di chi è consapevole di non essere in possesso della verità, ma di cercarla affannosamente, condividendo quindi con i lettori non già certezze assolute e non scalfibili (lo lasciamo agli esperti televisivi e ai commentatori sui social) ma piuttosto dubbi, perplessità e incertezze.

La prima valutazione ci viene in mente per una sorta di immediata associazione di idee: colpire gli occhi come possibile messaggio “malavitoso”. Scenario: Chiara Poggi è, come sostengono alcuni, è venuta a conoscenza di verità che non avrebbe dovuto scoprire: forse grazie alla sua curiosità, forse per caso. Qualcuno decide che è necessario tacitarla. Prima di ucciderla, chi opera ritiene quindi di rendere il delitto una sorta di monito per chi possa eventualmente pensare di seguire le orme della giovane: annulla il suo sguardo, il suo strumento di conoscenza. Un messaggio forse rivolto a una cerchia ristretta di persone in grado di coglierlo e comprenderlo. Un invito a non guardare, a volgere lo sguardo altrove. Mutatis mutandis e sempre per libera associazione, ci viene in mente la possibile lettura simbolica del delitto di Mino Pecorelli: il giornalista d’inchiesta che rivelava segreti scottanti che coinvolgevano certi contesti economico-istituzionali del nostro Paese e che qualcuno aveva soprannominato “il cantante” è stato ucciso, il 20 marzo 1979, con quattro colpi di pistola, il primo dei quali indirizzato alla bocca, come appunto per tacitarlo. Ribadiamo: solo un’idea, di cui non siamo certi, ma che ci viene suggerita dal dato di partenza.

La seconda possibile valutazione potrebbe non coinvolgere un consesso criminale organizzato ma afferire a una sfera di interazioni più privata. Scenario: Chiara è una ragazza equilibrata, dalla personalità solidamente strutturata, con idee precise sul suo futuro, professionale e affettivo. Forse, tra le sue frequentazioni, vi è qualcuno che conduce un’esistenza meno meritevole di generalizzati elogi da parte del contesto di riferimento, che sente di soccombere nel confronto con lei, che percepisce per così dire su di sé lo sguardo critico, giudicante della ragazza. E che, attuando il proposito di eliminare dalla sua vita una presenza tanto incombente e spiacevole, potrebbe essere guidato dall’esigenza, anche in questo caso, di annullare simbolicamente lo sguardo della vittima, per non sentirne più il peso su di sé.

L’ultima parola

Al di là della fondatezza degli scenari proposti – se ne potrebbero profilare anche di ulteriori – ci preme ribadire la gratuità, nella generale dinamica dell’iter criminis, delle lacerazioni sulle palpebre e il fatto che esse possano quindi costituire, nella prospettiva del criminal profiling elaborata dall’F.B.I., una specie di porta per accedere alle riposte motivazioni del soggetto ignoto.

Come già ribadito, non sappiamo se e in che misura considerazioni del genere potrebbero rivestire una qualche utilità nell’indagine attualmente in corso. Al lettore le valutazioni del caso.

Del resto, siamo consapevoli che, al di là delle analisi criminologiche, l’ultima parola spetta ai riscontri forensi (per la verità, in questo caso, alquanto controversi) e alle determinazioni dei magistrati.

Per quanto riguarda le effettive potenzialità del criminal profiling, ci associamo alle parole di Roy Hazelwood, uno degli agenti del Bureau che hanno contribuito alla codificazione del primo modello di tale, peculiare analisi investigativa: “Di per sé, raramente un profilo risolve un crimine. Per quanto ne so, è avvenuto solo poche volte. Tuttavia, può riattivare un’indagine arrivata a un punto morto generando nuove idee o, per dirla con il biochimico Albert Szent-Györgyi, ‘pensando ciò che nessun altro ha pensato’.”

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Tags: Chiara PoggiDelitto di Garlasco
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