Venezia. Si è tenuta ieri, 25 ottobre, nell’aula d’Assise, la seconda udienza del processo al ventitreenne Filippo Turetta, per l’omicidio dell’ex fidanzata Giulia Cecchettin. Si è proceduto all’interrogatorio dell’imputato. Una seduta di circa sei ore e mezzo, con mezz’ora di interruzione.
Il presidente Stefano Manduzio ha annullato l’udienza del 28 ottobre, essendosi concluso l’interrogatorio da parte del Pm, delle parti civili e della difesa. Il 25 e 26 novembre è previsto il dibattito, il 3 dicembre la sentenza.
“Voglio raccontare tutto”, esordisce l’imputato all’inizio dell’udienza. Balbetta. Tiene la testa bassa. Risponde alle domande, tra qualche “non ricordo”. L’avvocato Nicodemo Gentile, legale di Elena Cecchettin, sorella della vittima, gli chiede il motivo del suo gesto. “L’ho uccisa perché non voleva tornare con me”, è la semplice risposta. “Sentivo di aver perso per sempre la possibilità di tornare insieme, di non sentirla mai più. Ho percepito la possibilità di perdere il rapporto.”
Un processo anomalo, è stato definito. La difesa del giovane ha rinunciato a chiedere la perizia psichiatrica. Lui, Filippo, ha espresso già mesi fa, tramite il suo difensore, l’avvocato Giovanni Caruso, “la volontà che la giustizia faccia il proprio corso nei tempi più rapidi possibili e nell’interesse di tutti.” E ha chiesto di essere interrogato. Si procede dunque in modo spedito, come previsto nel rito abbreviato.
In aula è presente il padre della ragazza, Gino, che ha assistito anche all’udienza di apertura del dibattimento. Non se l’è sentita, invece, di esserci Elena, la sorella, che con un messaggio su Instagram ha spiegato i motivi della sua assenza.
Capi d’accusa
L’accusa di cui deve rispondere Filippo Turetta: omicidio aggravato dalla relazione affettiva con la vittima, stalking (duecentoventicinquemila messaggi mandati in meno di due anni), premeditazione, crudeltà, sequestro di persona, occultamento di cadavere.
Ecco alcune fasi dell’esame. 8.30: arriva il furgone della polizia penitenziaria che trasporta Filippo Turetta dal carcere di Verona alla Cittadella della giustizia di Venezia, sita in piazzale Roma. Il giovane entra in aula dal retro.
L’imputato deve ripercorrere il suo rapporto con Giulia, fino alla sera del delitto, compiuto con settantacinque coltellate.
“Filippo depositerà uno scritto di circa quaranta pagine in cui a mente fredda cerca di ricostruisce punto per punto i suoi ricordi e di aggiungere o integrare quanto detto durante i lunghi interrogatori”, preannuncia l’avvocato Caruso, all’arrivo in Corte d’Assise. Qualcuno gli chiede come stia il suo assistito. “È un coniglio bagnato, si può dire?”, risponde Caruso.
“Voglio raccontare tutto quello che è successo”, dice l’imputato davanti alla Corte, spiegando che le sue diverse memorie scritte nascono dalla volontà di “mettere per iscritto le cose che mi venivano in mente, alcune cose non me la sentivo di descriverle sul momento.”
La lista
“Ho pensato di toglierle la vita.” Questa la risposta fornita al Pm di Venezia Andrea Petroni, che gli chiede se, compilando la lista del 7 novembre 2023 (contenente gli strumenti per legarla e i coltelli, ndr) avesse già in mente il delitto.
“Quella sera scrivendo quella lista ho ipotizzato questo piano, questa cosa, di stare un po’ insieme e di farle del male.”
“Ero arrabbiato, avevo tanti pensieri, provavo un risentimento che avessimo ancora litigato, che fosse un bruttissimo periodo, che io volessi tornare insieme e così… non lo so… in un certo senso mi faceva piacere scrivere questa lista per sfogarmi, ipotizzare questa lista che mi tranquillizzava, pensare che le cose potessero cambiare.” “Era come se ancora non la dovessi definire, ma l’avevo buttata giù.”
“Ho iniziato a farlo [a compilare la lista, appunto] il 7 novembre perché ho cominciato a pensare, avevo tanti pensieri sbagliati.” L’omicidio della studentessa è avvenuto tre giorni dopo, l’11 novembre.
Bugie
In aula, Filippo Turetta ammette di aver detto “una serie di bugie” nel corso del primo interrogatorio con il Pm. “Nella lista scrissi che avevo bisogno di due coltelli per avere più sicurezza.” “Pensando al fatto che fosse un bruttissimo periodo, ho iniziato a scrivere questa lista per sfogarmi, questa cosa mi tranquillizzava. In un certo senso pensavo che le cose potessero cambiare.”
Preparativi
La notte tra l’8 e il 9 si era abbonato a una rete Vpn per “schermare” il collegamento Ip del suo cellulare. Aveva cercato delle zone isolate in montagna, fatto un prelievo bancomat di 200 euro.
Il 10 novembre aveva acquistato due rotoli di nastro adesivo su Amazon, e una piantina dell’Italia. Nonché, un terzo rotolo di scotch in ferramenta.
“In quei giorni ho messo anche in auto due coltelli, che mi dovevano servire per aggredirla.”
Nella lista vi era anche un badile: “Ci avevo pensato per eventualmente occultare il corpo, ma poi non ci avevo pensato più.”
A proposito dei luoghi da lui ricercati, impervi e isolati (“desolati”, secondo la definizione del Pm): “Cercavo un posto dove sarebbe stato possibile stare più tempo insieme, dove ovviamente sarebbe stato più difficile trovarci, poi dopo inevitabilmente saremmo stati trovati e quindi pensavo di aggredirla e poi… anche… togliere la vita anche a lei e poi a me. È per questo che li ho cercati.”
La dinamica
Dal memoriale depositato mercoledì, scritto da Turetta in questi mesi trascorsi in carcere: “Appena uscita dalla macchina ero arrabbiatissimo, non volevo che se ne andasse così. Ho preso uno dei coltelli e sono sceso di corsa per fermarla. Lei tentando di scappare è caduta per terra e ha gridato ‘aiuto’. Io le ho dato 2-3 strattoni, ha sbattuto la testa e ha perso lucidità. Non ricordo se l’ho colpita, ma suppongo di sì, perché mi sono trovato in mano solo il manico del coltello.” Versione confermata in aula.
“Mentre la macchina era in movimento ho preso lo scotch, l’ho strappato con mani e denti, per farla stare in silenzio, mi sono girato di scatto e lei tentava di impedirmelo, ma non sono riuscito perché la macchina era in moto. Poi ho sentito aria fredda e ho visto lei che aveva aperto la porta e stava uscendo dalla macchina.”
“Ma a un certo punto devo essermi girato e là devo averla colpita anche dentro in macchina durante il tragitto, mi pare sulla coscia”, aggiunge in aula.
Pochi minuti dopo, nella zona industriale di Fossò, l’omicidio. “Quando Giulia è uscita dalla macchina, l’ho raggiunta da dietro, eravamo vicini al marciapiede”, si legge ancora nel memoriale. “Forse le ho dato una spinta o forse è inciampata, ero accovacciato sopra di lei che era per terra e continuava a urlare forte. In quel momento volevo toglierle la vita.
Il Pm: “Ma se il suo obiettivo era rapirla, perché una volta che l’ha catturata non la ricarica in macchina e invece prende il coltello?”
“In quel momento lei si opponeva diversamente da prima, non sarei mai riuscito a riportarla dentro in macchina”, risponde l’imputato.
Propositi suicidi
Il Pm fa riferimento ai propositi suicidi del giovane. “Ho provato a mettermi in testa un sacchetto dopo aver occultato il corpo di Giulia, ma non ce l’ho fatta”, racconta Turetta.
“Strane idee”
Il Pm cita poi una “lista di motivi” per cui Giulia aveva lasciato Filippo, tra cui “ha idee strane riguardo a farsi giustizia da solo per i tradimenti, alla tortura.” “L’ho detto durante una litigata, ero alterato, magari senza pensarci ho detto qualche brutta frase.”
“Volevo tornare insieme a lei, avevo rabbia perché lei non voleva”: Filippo Turetta risponde così alla domanda sul perché abbia ucciso Giulia Cecchettin, che gli pone l’avvocato Nicodemo Gentile.
Avvocato Gentile: “Perché non l’ha lasciata andare a casa quella sera a Vigonovo?” Turetta: “In quel momento ho sentito di aver perso per sempre la possibilità di tornare insieme. Non avere più un rapporto, ho percepito questo: di perdere la possibilità di un rapporto.”
Le due fasi del delitto
Rispondendo alle domande dei legali delle parti civili, Turetta ripercorre di nuovo dettagliatamente le due fasi del delitto. La prima a Vigonovo: “Ho preso il coltello dalla macchina e l’ho rincorsa dopo che lei è uscita, l’ho raggiunta, poi devo averla spinta o tirata. Lei è caduta e la devo aver colpita con il coltello. Le ho tirato degli strattoni e ha sbattuto la testa sul pavimento e poi l’ho spinta in macchina.”
Dopo, il viaggio fino a Fossò, su cui molto si sofferma l’avvocato del padre di Giulia, Stefano Tigani.
Dal memoriale di Turetta: “Le ho dato un colpo al collo, ho pensato che fosse meno doloroso e veloce, lei si difendeva con entrambe le braccia e spostava il corpo, così ho iniziato a colpire più velocemente possibile senza guardare.”
E aggiunge in aula: “Facevo quello che mi veniva in mente.” “Mi rendevo conto che doveva avere delle ferite e all’idea che questo potesse essere visto volevo evitarlo. Volevo sapere che lei non c’era più, ma senza vedere come, sono immagini brutte, non so come dire.”
“In macchina avevo preso il cellulare di Giulia per allontanarlo da lei, per spegnerlo insomma. Poi, dopo Fossò, l’ho buttato dal finestrino, assieme al coltello, mi pare in un fossato, un piccolo canale che circonda un terreno, ma non ricordo con precisione dove.” Così Turetta conferma quanto aveva già detto in fase di indagini preliminari, rispondendo a Petroni sul particolare del telefonino di Giulia, finora non recuperato: “Stavo guidando e non ricordo bene, ho gettato questi due oggetti, in un fossato, mentre ero su una strada secondaria.”
“Preordinazione”
Poi, l’esame da parte del suo difensore, che si protrae per circa un’ora e mezza. L’avvocato Caruso mira a far emergere che quella di Turetta non è stata una vera premeditazione, ma preordinazione: il giovane conferma che aveva pensato di uccidere Giulia, ma che quella sera non era sicuro di farlo.
“Mentre chiacchieravamo, avevo iniziato a pensare a tutto quello che avevo pensato di fare i giorni precedenti e se farlo o no, in quel momento io comunque volevo riconciliare il nostro rapporto e speravo di farlo con questo regalo.” Parla, Turetta, di un orsetto di peluche che la giovane aveva rifiutato.
Nel corso dell’esame, l’avvocato Caruso menziona il coltello spezzato a Vigonovo, impiegato nella prima fase dell’aggressione, poi conclusasi a Fossò. Sul reperto risultano assenti tracce ematiche e la forma della lama non sembra corrispondere ad alcune delle ferite riscontrate sul corpo della vittima. L’avvocato chiede al suo assistito se ricordi di averla ferita in quei primi istanti. Lui risponde di essere convinto di averle fatto del male, ma di non ricordare la dinamica dei fatti.
Domanda: “Lei ha mai pensato al suo futuro?” Risposta: “In questo momento no, penso che l’unica cosa giusta è affrontare questo ed espiare, provare a pagare per quello che ho fatto.”