L’Aquila. Un carabinieri dell’Arma è stato degradato e licenziato per aver favorito un latitante. L’uomo, che aveva una relazione sentimentale con la sorella di un latitante di mafia fino al 2003 era in servizio nel capoluogo abruzzese. Tuttavia i giudici che lo hanno condannato hanno ordinato di omettere le generalità del militare in materia di protezione dei dati personali. L’ex carabiniere nel 2003 aveva patteggiato la pena, poi sospesa, di undici mesi di reclusione per i reati di omissione di atti d’ufficio e procurata inosservanza di pena aggravata. Per lui l’accusa di aver coperto la latitanza di un pericoloso latitante, fratello della collaboratrice di giustizia che in quel periodo stava proteggendo per motivi di servizio, e con la quale aveva allacciato una relazione. Nello specifico, era accusato di aver omesso di procedere all’arresto dell’uomo, di non aver fornito ai suoi superiori informazioni utili alla cattura e, infine, di averlo aiutato a sottrarsi agli organi di Polizia. A catturare il latitante, ricercato in tutta Italia per reati di mafia, e che in quel periodo si nascondeva in un appartamento del quartiere Pettino, fu la squadra mobile. Alla conclusione del procedimento penale la vicenda finì all’attenzione di una commissione di disciplina istituita dal Comando generale dei carabinieri, che nell’agosto dello stesso anno chiuse il caso con una sanzione molto pesante. Il carabiniere fu ritenuto non meritevole di conservare il grado, stante la gravità dei fatti. La commissione rilevò anche “carenze di ordine morale con conseguente lesione del prestigio dell’Istituzione” e la violazione “dei doveri attinenti al grado e alle funzioni del proprio stato”, che resero incompatibile la sua ulteriore permanenza nell’Arma dei carabinieri. Il carabiniere presentò due ricorsi al Tar Abruzzo, definiti nel 2008 con altrettante sentenze di rigetto. La vicenda approdò dunque al Consiglio di Stato. Nel procedimento di appello il carabiniere si è giustificato dicendo di non essere a conoscenza del fatto che il fratello della collaboratrice di giustizia fosse un latitante ricercato per reati di mafia, e di aver patteggiato (pur se innocente), per evitare che la propria famiglia venisse a conoscenza della relazione che aveva intrecciato solo per acquisire notizie utili a fini investigativi. I giudici di secondo grado hanno però evidenziato che questa ricostruzione dei fatti è impossibile da accertare, e soprattutto risulta “sfornita di qualsivoglia supporto indiziario”.