Roma. 7 agosto 1990. “Simonetta e Marco si sono conosciuti attraverso le chat del Videotel. C’è una chimica. Nasce la voglia di incontrarsi di persona. Lui decide di andare a trovarla a Roma. Si sono sentiti anche al telefono, lei gli ha fornito l’indirizzo: sarà sola in ufficio, quel pomeriggio. Lui prende prima il treno, poi la metro. Raggiunge via Poma, lei gli apre. È la prima volta che lo vede di persona. Lui, goffo e impacciato, tenta un maldestro approccio sessuale, lei lo respinge – o forse lo deride – e viene barbaramente uccisa. Poi il femminicida si allontana, verso un treno notturno per tornare a Bolzano. Non è un delitto premeditato, la furia omicida scatta dal rifiuto. Come altre volte.”
Questa che abbiamo letto è forse, una buona volta, la verità su quanto accaduto negli uffici dell’Associazione Italiana Alberghi della Gioventù (A.I.A.G.) dove, com’è noto, ha trovato la morte la giovane Simonetta Cesaroni, in circostanze finora mai chiarite? Non esattamente. È la tesi che il giornalista Paolo Cagnan propone nel suo libro-inchiesta Anatomia di un serial killer. Marco Bergamo, storia del mostro di Bolzano, pubblicato recentemente.
Dunque, secondo tale assunto, l’omicidio di Simonetta Cesaroni sarebbe da attribuire al serial killer Marco Bergamo. Tesi fondata, dal punto di vista criminologico e investigativo? Tentativo di scoop come capita spesso a ridosso di crimini insoluti? Certo, a prima vista, quella del serial killer come possibile responsabile della morte di Simonetta potrebbe apparire “strampalata”, come ammette lo stesso Autore del volume. Per la verità, in generale, non è nemmeno inedita, è già stata prospettata nel 2006, sia pure in termini diversi. Il magistrato Otello Lupacchini e il giornalista Max Parisi all’epoca hanno analizzato dodici casi di ragazze scomparse e uccise a Roma tra il 1982 e il 1990, prospettando appunto la possibilità che il delitto Cesaroni fosse l’ultimo di una serie di dieci o dodici omicidi posti in essere da un assassino seriale attivo in quegli anni, in una specifica zona di Roma. Tra le sue vittime, secondo Lupacchini e Parisi, anche Katy Skerl, Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi.[1]
Oggi ci confrontiamo, invece, con la possibilità di attribuire l’omicidio da un serial killer già condannato per i suoi delitti e defunto da alcuni anni.
Chi è Marco Bergamo?
Nato a Bolzano il 6 agosto1966, ha un’infanzia difficile e solitaria. Da bambino è affetto da un ritardo del linguaggio, in seguito ha problemi di obesità e psoriasi, che probabilmente accentuano la sua introversione. Pochi amici e hobby come la fotografia, l’automobilismo e lunghe passeggiate in montagna. Colleziona coltelli, da ragazzo, e ne porta sempre uno con sé. Consegue il diploma, svolge piccoli lavori manuali. E ruba indumenti intimi femminili. A ventisei anni, nel maggio 1992, gli viene asportato un testicolo, circostanza per lui profondamente traumatica.
Prima vittima: Marcella Casagrande, studentessa quindicenne al primo anno dell’istituto magistrale, sua vicina di casa. Rivenuta senza vita il 3 gennaio 1985, l’assassino la sorprende alle spalle, le infligge varie pugnalate, di cui una raggiunge la colonna vertebrale. La giovane viene poi trattenuta per i capelli, mentre l’omicida la sgozza.
Seconda vittima: sei mesi dopo, il 26 giugno 1985. Annamaria Cipolletti, insegnante delle scuole medie, anche dedita alla prostituzione in un monolocale. Uccisa con diciannove fendenti. L’omicida porta con sé gli indumenti intimi della donna. In un portacenere, sulla scena del crimine, vengono rinvenuti mozziconi di sigaretta e vari profilattici, nuovi e usati. Dalle risultanze dell’indagine, la vittima non avrebbe subito violenza sessuale.
Passano circa sette anni. Il 7 gennaio 1992, la terza vittima: Renate Rauch, ventiquattro anni, prostituta. Il suo cadavere viene ritrovato nel parcheggio di un’area di servizio in via Renon, a Bolzano. Le sono stati inflitti ventiquattro colpi mortali, tutti sul lato sinistro del corpo, perché la Rauch viene uccisa mentre è seduta in auto. Qualche giorno dopo, sulla sua tomba, qualcuno lascia un mazzo di fiori con attaccato un biglietto, su cui si si legge: “Mi spiace ma quello che ho fatto, doveva essere fatto e tu lo sapevi: ciao Renate! Firmato M.M.”
21 marzo 1992, quarta vittima: Renate Troger, diciannove anni, prostituta di Millan, trovata senza vita in un piazzale nei pressi di Campodazzo di Renon. Prima sgozzata, poi colpita con quattordici coltellate.
6 agosto 1992, quinta vittima: Marika Zorzi, vent’anni, prostituta di Laives, il cui corpo senza vita viene recuperato presso il secondo tornante della strada che conduce al Colle dei Signori. Ha ricevuto ventotto coltellate.
Alle 6 del mattino del 6 agosto 1992, Marco Bergamo viene fermato a un posto di controllo in via Volta a Bolzano, a bordo della sua Seat Ibiza di colore rosso. Dichiara che si sta recando a Trento per cure mediche. Il parabrezza dell’auto è scheggiato in più punti, nel portabagagli gli agenti recuperano la copertura del sedile anteriore destro imbrattata di sangue e il portafogli di Marika Zorzi, uccisa poche ore prima.
Segue un serrato interrogatorio in Questura, secondo quanto dichiara Bergamo, durante un incontro, la Zorzi lo avrebbe respinto notando che gli mancava un testicolo: “Visto che avevo un solo testicolo, disse che non voleva più continuare. Le ho chiesto di ridarmi i soldi, ma lei si è messa a urlare. Ho provato a calmarla, dandole un paio di schiaffi, ma non ci sono riuscito. Mi ha aggredito urlandomi figlio di puttana. È l’ultimo mio ricordo.”
Bergamo confessa solo tre dei cinque delitti, nega di aver ucciso Anna Maria Cipolletti e Renate Troger. Una delle dichiarazioni rese durante gli interrogatori: “Nei sogni, quando colpisco le donne, lo faccio al cuore e alla testa: si uccidono meglio, si centrano gli organi vitali.”
Emerge una profonda avversione nei confronti dell’altro sesso, sembra causata dal terrore di essere deriso e respinto.
La Corte d’Assise di Bolzano incarica di redigere una perizia sull’uomo quattro specialisti, che giungono a conclusioni diverse. Una nuova perizia, affidata a Gianluigi Ponti, Ugo Fornari e Francesco Bruno, valuta che Bergamo sia giunto alla perversione estrema: l’omicidio per godimento. Dopo il primo assassinio avrebbe scoperto che, uccidendo, era in grado di provare piacere e, contemporaneamente, annientare l’oggetto della sua paura e del suo odio. L’omicidio giunto al livello di estrema perversione sadica, la modalità più estrema di possedere una donna.
Sentenza dell’8 marzo 1994: Bergamo condannato a quattro ergastoli e trent’anni anni di reclusione per i cinque omicidi ascrittigli. Riconosciuto sano di mente al momento dei delitti, pure con personalità fortemente disturbata. Nel 2014 la Corte d’Assise di Bolzano respinge la richiesta del condannato di essere giudicato con rito abbreviato per gli omicidi da lui commessi.
Un mese e mezzo dopo la condanna all’ergastolo, il padre dell’uomo, Renato Bergamo, si impicca nella soffitta della sua casa. Marco Bergamo muore per un’infezione polmonare il 17 ottobre 2017 nel carcere di Bollate, dove stava scontando la pena.
Il delitto di via Poma
Dunque, secondo la tesi in questi giorni riportata da numerosi giornali, a Marco Bergamo potrebbe attribuirsi anche l’omicidio di Simonetta Cesaroni, avvenuto in via Poma, nel quartiere Prati di Roma, il 7 agosto 1990. In un articolo pubblicato sulla Stampa[2], l’Autore del libro in cui la teoria viene esposta, riporta le seguenti argomentazioni.
1. Tra gli omicidi del 1985 (gennaio e giugno) e quelli del 1992 (gennaio, marzo, agosto), per un periodo dunque di sette anni, è credibile che il serial killer sia rimasto inattivo? In realtà, la casistica dimostra che il cosiddetto cooling-off period[3] (periodo di raffreddamento emotivo) che un omicida seriale lascia trascorrere tra un’aggressione e l’altra, può ampiamente variare. Un caso fra tutti, quello del Mostro di Firenze: uccide (forse) per la prima volta, nel 1968, colpisce nuovamente sei anni dopo, nel 1974 e, dopo ulteriori sette anni, due volte nel 1981, per poi reiterare i successivi duplici omicidi una volta l’anno, fino al 1985. Dunque, questo rilievo non risulta decisivo.
2. “Il gruppo sanguigno di Bergamo, A Rh positivo, è lo stesso dell’assassino di via Poma. E il Dna, ricavato con l’ancora scarna tecnologia dell’epoca, potrebbe davvero essere il suo, se si dimostrasse un errore nella ‘lettura occhiometrica’ di una coppia di alleli”, scrive Cagnan. Quindi, riscontro positivo per Bergamo, ma solo a condizione di considerare sbagliata la lettura delle risultanze dell’analisi, come a dire riscontro attualmente negativo. In ogni caso, segnaliamo che esami genetici sul materiale recuperato in via Poma sono stati ripetuti in più occasioni nel corso dell’inchiesta, proprio per riesaminare le tracce disponibili alla luce delle tecniche forensi nel frattempo introdotte (relazione tecnica Lago-Garofano, 25 marzo 1999; relazione tecnica Garofano-Pizzamiglio-Testi, 27-28 ottobre 2004). E, in tema di confronto genetico, sono stati esaminati tutti i soggetti potenzialmente sospettati, tranne due (uno dei datori di lavoro di Simonetta e un dipendente dell’A.I.A.G.), perché ne frattempo deceduti.[4]
3. “L’assassino di via Poma ha dimestichezza con l’uso dei coltelli.” Dalla ricostruzione della dinamica dell’aggressione di via Poma non vi è nulla che consenta di affermare un dato del genere, che l’Autore del libro sembra dare invece per scontato.
4. E, a proposito dell’arma del delitto, altro punto: “Un tagliacarte, fu detto. Io ipotizzo un pugnale”, conclude Cagnan. La possibilità che l’arma utilizzata a via Poma sia un tagliacarte deriva da un accurato esame medicolegale: “L’arma del delitto”, si legge nel referto autoptico di Simonetta Cesaroni, “va identificata in un mezzo da punta e taglio con peculiarità bitagliente, ma non dotata di particolare azione recidente e penetrata segnatamente in virtù della sua estremità aguzza.”[5] Il pugnale, viceversa, avrebbe evidentemente rivelato maggiore attitudine recidente e penetrante proprio grazie all’affilatura delle lame.
5. “Simonetta viene colpita con un violentissimo schiaffo e cade a terra. Anche la studentessa quindicenne da lui uccisa nel 1985 venne prima schiaffeggiata”. Le fonti che descrivono l’omicidio di Marcella Casagrande (3 gennaio 1985), riferiscono, come abbiamo visto, che l’assassino l’ha sorpresa alle spalle, le ha inferto varie pugnalate, di cui una ha raggiunto la colonna vertebrale. La giovane è stata infine trattenuta per i capelli e sgozzata. Una dinamica che non risulta sovrapponibile all’aggressione di via Poma.
6. “E poi un tentativo di strangolamento, come per un’altra delle vittime del mostro.” Circa le tracce dell’aggressione rinvenute sul corpo di Simonetta Cesaroni, oltre alle ferite da mezzo da punta e taglio, valga quanto affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 264/2014 (assoluzione definitiva di Raniero Busco dall’accusa di essere l’autore dell’omicidio): “Erano presenti anche altre tracce sul corpo: contusione dell’emivolto destro, attribuito ad un violento ceffone da parte di soggetto destrimane, lesione escoriata alla regione sterno-claveare destra e due minime lesioni escoriate al quadrante supero-mediale della base di impianto del capezzolo sinistro (le parti sembrano concordi sulla produzione contestuale delle due lesioni); ancora, sul cadavere erano presenti evidenti tumefazioni sul bacino, che dimostravano che le ferite mortali erano state inferte quando l’aggressore si trovava a cavalcioni sulla ragazza, già distesa supina (circostanza non contestata).”
7. “E un’altra donna bolzanina è stata massacrata con l’omicida che la sovrastava, a cavalcioni. Come con Simonetta.” Si potrebbe considerare che tale posizionamento dell’aggressore non risulti rara, in attacchi di tale tipologia e non appaia necessariamente idonea ad assurgere a “firma” di un omicida seriale.
8. “Diciannove colpi, in via Poma”, scrive l’Autore nel citato articolo. Un refuso, evidentemente, da momento che, com’è noto, i colpi inflitti a Simonetta sono stati ventinove.
9. E correttamente tali colpi vengono ricondotti alla categoria dell’overkilling, che Cagnan illustra in questo caso come “un accanimento che può indicare volontà punitiva o odio verso le donne, tutte le donne.” Che nell’iter criminis di via Poma si registri overkill è assodato. Come significativi sono i punti in cui le ferite inflitte a Simonetta si localizzano: occhi e organi genitali, in primis, a “spegnere” lo sguardo giudicante e forse irridente della vittima e a colpire l’oggetto di un desiderio impossibile da soddisfare. Anche in questo caso, dinamiche inconsce che certo attestano una propensione, una disposizione d’animo, delle problematiche relazionali non suscettibili di riscontrarsi in un unico individuo e, dunque, anche in questo caso, non necessariamente idonee a integrare una “firma” associabile a un unico omicida.
10. “E poi la sparizione degli indumenti intimi: Bergamo era un feticista riconosciuto. Pure la ricomposizione ritualistica della scena del delitto, con il corpetto poggiato sul corpo, assomiglia a situazioni già viste in Alto Adige.” L’assassino di via Poma era un feticista? Interpretazione possibile e non dato oggettivo, dunque non un argomento a favore della tesi secondo cui Bergamo avrebbe ucciso Simonetta Cesaroni. Sulla scena del crimine di via Poma sembrerebbero, piuttosto, sussistere indicatori associabili a un tentativo di ripulitura delle tracce del delitto (e, probabilmente, di rimozione del corpo della vittima). Vi fa cenno, tra le varie fonti, la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma del 27 aprile 2012, relativa al summenzionato processo a Rainiero Busco: “in prossimità del capo e dei capelli scomposti il pavimento recava impronte rosacee semicircolari, come per parziale detersione; l’ambiente circostante si presentava in ordine, in un angolo una accanto all’altra erano allineate le sue scarpe da tennis slacciate.” Corpetto e scarpe da tennis potrebbero essere stati collocati in modo da consentire il lavaggio del sangue dal pavimento intorno al corpo. Ovviamente trattasi, anche in questo caso, di una delle varie interpretazioni possibili.
11. “Infine”, si chiede Cagnan, “non potrebbe essere lui [Marco Bergamo, ndr] quell’uomo giovane, alto e un po’ allampanato che Giuseppa De Luca, moglie del custode Pietrino Vanacore [il portinaio di via Poma, ndr], disse di avere visto uscire dal complesso di via Poma, con un berrettino a visiera e un fagotto?” Arduo, per l’Autore e per noi, fornire una decisiva risposta a tale quesito, che dunque non può considerarsi un argomento a favore della “tesi Bergamo”. Anche considerando che le descrizioni del soggetto fornite dalla De Luca nel corso del tempo non sono state univoche.
A proposito di vittimologia
I delitti di Marco Bergamo risultano significativi anche dal punto di vista dei profili vittimologici. Sembra di poter osservare, in tal senso, una sorta di “progressione”: dalla studentessa (primo omicidio, Marcella Casagrande, 3 gennaio 1985) all’insegnante-prostituta (secondo omicidio, Annamaria Cipolletti, 26 giugno 1985), fino a un definitivo consolidarsi dell’interesse dell’offender per le prostitute: terzo omicidio, Renate Rauch, 7 gennaio 1992; quarto omicidio, Renate Troger, 21 marzo 1992; quinto omicidio, Marika Zorzi, 6 agosto 1992.
Difficile che il profilo vittimologico sia casuale, sembrerebbe anch’esso rispecchiare aspetti dell’immaginario di Bergamo e della sua “evoluzione”. In casi del genere, è noto, l’omicida effettua una specifica selezione della vittima, focalizzandosi su sue caratteristiche ricorrenti.[6] Da questo punto di vista, Simonetta Cesaroni non possedeva evidentemente alcun tratto idoneo a sollecitare l’attenzione del soggetto e ben difficilmente sarebbe potuta entrare, per così dire, nel suo campo visivo.
Dove si trovava Marco Bergamo il 7 agosto 1990?
E, in conclusione, la problematica forse più evidente sottesa all’assunto in questione. L’alibi di Marco Bergamo. A una lettura superficiale – senza chiamare in causa quanto afferma la letteratura criminologica sulle cosiddette “mappe mentali” dei criminali, assassini seriali compresi – si sarebbe infatti portati di affermare che l’uomo operava in un contesto completamente diverso dal quartiere Prati di Roma. Ci sono riscontri di un eventuale viaggio a Roma di Marco Bergamo nei giorni del delitto Cesaroni? Certo, per poter affermare la sua colpevolezza non basta la constatazione dell’assenza di un alibi, un “potrebbe essere stato a via Poma” da talk-show di cronaca nera, ma occorrerebbe un riscontro oggettivo – forense – della sua presenza sulla scena del crimine.
Da qui, la conclusione dell’articolo di Cagnan: “E adesso? La palla passa alla procura di Roma. Che dovrà innanzitutto decidere se giocare questa partita, oppure no.” Giusto. Adesso spetta agli investigatori la valutazione della plausibilità del nuovo scenario proposto e dell’opportunità di percorrerlo. Attendiamo sviluppi.
[1] O. Lupacchini, M. Parisi, Dodici donne un solo assassino, 2006.
[2] https://www.lastampa.it/cronaca/2023/08/31/news/simonetta_cesaroni_uccisa_da_un_serial_killer_venuto_dal_nord_il_libro_che_riapre_il_giallo_di_via_poma-13020697/ (consultato il 31 agosto 2023).
[3] J.E. Douglas, A.W. Burgess, A.G. Burgess, R.K. Ressler, Crime Classification Manual, 2008; J.R. Osborne, C. Gabrielle Salfati, “Re-Conceptualizing ‘Cooling-Off Periods’ in Serial Homicide”, Homicide Studies, Volume 19 Issue 2, May 2015; A. Edelstein, “Cooling-Off Periods among Serial Killers”, Journal of Psychology & Behavior Research, Vol. 2, No. 1, 2020.
[4] P. Cochi, Via Poma oltre la Cassazione. Cronaca di un delitto senza giustizia, 2018.
[5] C. Lavorino, Il delitto di via Poma. Sulle tracce dell’assassino, 2009, p. 165.
[6] Cfr., tra gli altri, R. Holmes, S. Holmes, Omicidi seriali. Le nuove frontiere della conoscenza e dell’intervento, 2000.