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Il dialetto non è una vergogna: l’associazione culturale il Sito e Francesco Avolio presentano Barisciano e il suo dialetto

Redazione Cronaca di Redazione Cronaca
6 Marzo 2016
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L’Aquila. Che cos’è il dialetto? Dovremmo vergognarcene o esserne fieri? E’ destinato a morire o possiamo ancora salvarlo? A queste domande ha tentato di rispondere ieri, a Barisciano, il professore dell’Università dell’Aquila Francesco Avolio, in collaborazione con l’associazione culturale “Il Sito”. L’occasione è stata la presentazione del libro “Barisciano e il suo dialetto”, nato da quattro anni di interviste, testimonianze e studi approfonditi, per ricostruire la genesi di un dialetto unico, che niente o poco ha a che vedere con i paesi dell’aquilano. Ne è venuto fuori un vero gioiello per l’identità e la storia di un piccolo pezzo della cultura abruzzese, che coniuga rigore scientifico e semplicità comunicativa. Il dialetto è la nostra vita, è come rendere omaggio ad un nostro caro, un 20160305_171958nostro amico o compaesano scomparso; è la lingua dei nostri affetti, come scrive il “bariscianotto” Giulio Pacifico citando Andrea Camilleri. Mentre la lingua italiana esprime concetti, il dialetto, nella sua estrema concretezza, è puro sentimento. Sono “lingue mancate”, diceva Pasolini, a cui fa eco il professor Avolio. Ma allora perché i genitori, i nonni, si vergognano di parlarlo? “Guasta l’italiano”, dicono, e declassano il dialetto in un senso d’inferiorità. “Il dialetto è una fonte per la storia degli umili”, dice il professore citando un suo collega, di quelle classi subalterne fatte di artigiani, allevatori e contadini, che non lasciarono nulla di scritto. Un mondo perduto, arcaico ma sempre vitale, che può essere riscoperto nelle parole uniche di chi lo ha vissuto; gli stessi anziani che conobbero la fame e la fatica prima, spettatori poi del boom economico e del cosiddetto “sviluppo”, gli stessi che hanno reso possibile la riuscita di questo libro, con la loro appassionata collaborazione, citati nelle sue pagine ad uno ad uno. Ci si chiede se il nostro modo unico di parlare, che in Italia è splendidamente variegato come in nessun altro Paese, possa sopravvivere nel mondo moderno. Dipende da noi, risponde Avolio: se non lo parleremo, morirà per una nostra scelta. Nel frattempo un meccanismo simile sta interessando la lingua italiana rispetto all’inglese, vista come lingua maggiormente prestigiosa e indispensabile nel mondo del lavoro. Ma nel tempo della globalizzazione e dell’omologazione, parlare dialetto diventa un orgoglioso inno d’identità. @DiegoRenzi

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