L’Aquila. “Fa bene alla mente e al corpo, la sensazione impagabile di chi lascia la prima traccia in un mare di neve. Sciare è uno sport meraviglioso”. Inizia così la lectio magistralis del Prof. Hermann Brugger, medico del Soccorso Alpino dell’Alpenverein Südtirol, past president della Commissione Internazionale di medicina d’urgenza in montagna ICAR-MEDCOM, che in occasione della VI edizione del corso Ricerca e Stabilizzazione del travolto da Valanga, ha tenuto una lezione sulle nuove linee guida per la gestione del travolto da valanga, presso l’aula magna del Corso di Laurea di Medicina e Chirurgia dell’Università dell’Aquila. “Ma in pochissimi secondi potrebbe trasformarsi tutto in una tragedia”. E la felice premessa dell’inizio, enfatizzata dalla splendida slide di uno scialpinista che scende un pendio innevato, lascia attonito il pubblico di appassionati, intervenuto numerosissimo per ascoltare l’esperienza di chi, a oggi, è una delle voci più autorevoli a livello internazionale in materia di soccorso in valanga. Docenze universitarie, pubblicazioni su riviste scientifiche, la direzione dell’Istituto di Medicina d’Emergenza in Montagna dell’EURAC a Bolzano, un curriculum impossibile da sintetizzare, ma soprattutto tanta esperienza sul campo. È questo il background del Prof. Brugger, che prima di stilare un protocollo che fa scuola nella gestione del paziente ipotermico, ha lanciato la sperimentazione oltre i limiti dell’immaginabile, al confine tra la vita e la morte, sfatando il mito che da una valanga non se ne possa uscire vivi. Certo, la strada da percorrere per quello che è un problema di nicchia, che colpisce solo una piccola parte degli amanti della montagna, è impervia e c’è ancora tanto da fare. Basti pensare che, se nel primo quarto d’ora dal seppellimento, un travolto da valanga ha il 92% di possibilità di sopravvivenza, già dopo venti minuti la possibilità si riduce al 35%, fino a calare al 3% nei successivi novanta minuti. A essere sinceri, anche con una organizzazione eccezionale si fa fatica a restare all’interno di certi limiti temporali, a meno che non sia possibile l’intervento dell’elisoccorso, che dal 2014, in Abruzzo, per efficientare gli interventi in valanga, contempla a bordo del velivolo anche un’unità cinofila (cane e conduttore) del Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico. Eppure l’ipotermico da valanga necessita di un trattamento particolare. Al verificarsi di determinate condizioni cliniche, quando più nulla lascia presagire un riallineamento dei parametri vitali, quando l’attività cardiaca cessa, il tempo scorre e sembra sopraggiungere la morte, l’ipotermia può diventare l’unica speranza di salvezza. Spesso davanti all’evidenza di un cuore che ha smesso di battere, la maggior parte dei medici, trascurando il valore protettivo dell’ipotermia, dichiara la morte. Solo nel 2015 sono 30 le persone che in Italia hanno perso la vita a causa di una valanga. Negli anni quante ne abbiamo perse? Quante che avremmo potuto salvare, quante su cui implementare un protocollo salva vita di una tale portata? Fortunatamente la Regione Abruzzo ha cambiato rotta, guardando al futuro come un’opportunità per farsi capofila di un protocollo unico in Italia, che non ha antesignani e apre la via a un nuovo modo per gestire le emergenze in valanga. L’adozione del protocollo per la gestione del paziente ipotermico, divenuto operativo lo scorso 7 gennaio, che ha visto la luce grazie all’impegno del Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico Abruzzo in sinergia con la Scuola di Specializzazione di Anestesia, Rianimazione, Terapia Intensiva e del Dolore dell’Università dell’Aquila, ha evidenziato una grande sensibilità dei decisori istituzionali (il CREA e la politica regionale) verso le nuove tecnologie e l’innovazione in materia di soccorso in valanga. Due anni di lavoro perché il documento ufficiale vedesse la luce. Protocollo la cui paternità spetta a Gianluca Facchetti, Anestesista Rianimatore e Medico del CNSAS Abruzzo, che con Franco Marinangeli, Direttore della Scuola di Specializzazione di Anestesia e Rianimazione dell’Università di L’Aquila, da anni organizza e dirige i corsi di Ricerca e Stabilizzazione del Travolto da Valanga (siamo alla sesta edizione). Quindi corsi, educazione alla prevenzione, adozione di misure al passo con i tempi e tanta operosità nell’emergenza, è questo il fondale su cui i medici del Soccorso Alpino costruiscono giorno per giorno le basi di una cultura d’intervento in montagna. Sono queste le competenze, alpinistiche e mediche, che un Sanitario del CNSAS deve avere, quelle competenze che nel 2014 il dott. Gianluca Facchetti ha impiegato nell’operazione di soccorso di Mario Celli, lo sfortunato sciatore aquilano che ha perso la vita a causa di una valanga. “Mario era un ragazzo di 33 anni, specializzando nella facoltà di Ginecologia dell’Aquila, che per quanto riguarda l’Abruzzo – spiega Facchetti – rappresenta il caso zero. Dissepolto dalla valanga era in arresto cardiaco e in ipotermia. Collegato a un apparecchio per la circolazione extracorporea (ECMO) e adeguatamente riscaldato il suo cuore ha ripreso a battere. Per poi fermarsi irrimediabilmente tre giorni dopo. A cosa è servito tutto questo? È servito a convincerci che, se un cuore ipotermico può ripartire dopo 90 minuti dall’arresto cardiaco, è necessario avere un protocollo per i pazienti ipotermici accidentali”. Il caso di Mario Celli indica il punto fermo, la pagina svoltata, l’evoluzione rivoluzionaria del progresso scientifico. E’ questo il motivo per cui “a lui sarà intestata l’aula BLS (Basic Life Support) del Corso di Laurea di Medicina e Chirurgia, l’aula che gli studenti frequenteranno per imparare le tecniche di rianimazione, per acquisire un certificato Basic Life Support. A darne conferma è la professoressa Maria Grazia Cifone, direttrice del Dipartimento MESVA, che ha consegnato al fratello di Mario -“in ricordo di uno dei nostri migliori studenti” ha detto -una targa con su inciso un famoso aforisma di Lao Tze: “Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”.