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Marchio d’origine e legalità: alcuni punti essenziali da conoscere

Valentina Astorino di Valentina Astorino
29 Marzo 2023
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Del “made in Italy” si parla tanto e si conosce l’importanza del “marchio d’origine” sui prodotti acquistati.
Pochi sanno, però, che, oltre a garantire la provenienza italiana della merce in vendita, questa indicazione riportata sui prodotti fa capo a una precisa legislazione.
La legge 24 dicembre 2003, n. 350 disciplina le categorie di prodotto che possono definirsi “made in Italy”, includendo prodotti realizzati interamente o anche solo in parte in Italia.
La seconda ipotesi, tuttavia, necessita di una più rigida selezione: applicando le regole previste dal Codice Doganale Comunitario Aggiornato (Regolamento CE 23/04/2008 n° 450 – art. 36 – sull’origine doganale non preferenziale delle merci), un prodotto può essere considerato di origine italiana (in senso doganale) e contenere, quindi, l’indicazione “made in Italy” anche quando nel nostro Paese è avvenuta soltanto l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale.

Sul punto rileva l’art. 4, comma 49, secondo il quale «costituisce falsa indicazione la stampigliatura “made in
Italy” su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine»; si chiarisce quindi che non è prevista l’applicabilità del marchio se l’attività di trasformazione non si sia svolta in Italia o, se qui svoltasi, sia stata marginale o irrilevante. Si aggiunge che «l’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell’articolo 517 del codice penale».

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Trattasi di vero e
proprio delitto e non di mera contravvenzione, punito con la reclusione fino a due anni e multa fino a ventimila euro (come previsto dal Decreto Competitività). Il profilo penalmente rilevante della condotta si giustifica in ragione del fatto che è quanto mai necessario scongiurare il rischio che prodotti con falsa indicazione di provenienza possano essere commercializzati e distribuiti, violando anche il legittimo affidamento del cliente finale circa le caratteristiche del prodotto.
Il decreto legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito in legge 20 novembre 2009, n. 166 ha, invece, introdotto l’art. 49 bis secondo il quale «costituisce fallace indicazione l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti a evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in
fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto».

Particolare regime è riservato ai prodotti alimentari, rispetto ai quali per effettiva origine si intende il luogo di coltivazione o di allevamento della materia prima agricola utilizzata nella produzione e nella preparazione dei prodotti e il luogo in cui è avvenuta la trasformazione sostanziale.
Però, a oggi, molte sono le perplessità che riguardano l’apposizione del marchio, soprattutto quando si tratta di prodotti che sono stati “trasformati” in vari paesi, dal momento che risulta difficile interpretare e comprendere la l’espressione “trasformazione sostanziale”.

In effetti alcune proposte sono state avanzate, ma risultano di fatto sospese.
A tal proposito si ricorda che a oggi non ha trovato ancora attuazione la legge n. 55 del 2010, meglio nota come legge ‘Reguzzoni-Versace’, che introduce nel settore del tessile e della pelletteria un sistema di etichettatura obbligatoria per identificare il luogo di origine di ciascuna fase della lavorazione e prevede la possibilità di apporre la dicitura “made in Italy” solo sui prodotti di cui almeno due fasi della lavorazione siano avvenute in Italia.

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