Chieti. “Rosario, prima di essere un giudice, era un uomo che sapeva in che contesto si stava muovendo, ma soprattutto era un figlio, un cugino, un nipote, era tutto per la famiglia. E poi era tutto per il lavoro. Questi erano i suoi ambiti e là ha dato il meglio di sé, tanto da arrivare alla beatificazione, per martirio”. Salvatore Insenga con queste parole ha voluto ricordare oggi (sabato 25 marzo) a Chieti il cugino, Rosario Livatino. L’unico parente ancora in vita del magistrato ucciso dalla mafia nel 1990 è stato ospite della mostra Sub Tutela Dei – Rosario Livatino, l’uomo, il giudice, l’esempio promossa da: Libera associazione forense, Centro studi Rosario Livatino, Centro culturale Il Sentiero e ospitata al Meeting di Rimini la scorsa estate.
L’allestimento, curato dal Csv Abruzzo Ets, è in programma in tutta la regione. La prima esposizione, al museo Barbella di Chieti fino al 31 marzo, ha potuto offrire oggi (sabato 25 marzo), la testimonianza di Insenga, un importante appuntamento con la cittadinanza e con le scuole teatine. Nel foyer del teatro Marrucino erano presenti, l’arcivescovo metropolita di Chieti – Vasto, Bruno Forte; il sindaco della città, Diego Ferrara; la presidente dell’associazione Libera Chieti – presidio Attilio Romanò, Gilda Pescara, anche insegnante del Liceo Isabella Gonzaga di Chieti; la curatrice della mostra, Roberta Masotto. Per il Csv Abruzzo Ets c’erano il presidente regionale, Casto Di Bonaventura; i coordinatori della delegazione di Chieti, Ermanno Di Bonaventura; di Pescara, Lorenzo Di Flamminio; di Teramo, Guido Campana; la responsabile regionale dell’area Promozione, Sandra De Thomasis.
Gli interventi dei relatori sono stati inframmezzati dal progetto “Ti racconto di me”, uno struggente ricordo del beato a cura degli studenti della seconda A del Liceo statale Isabella Gonzaga. A seguire la visita guidata all’esposizione tenuta dagli studenti apprendisti ciceroni. “Entrare nella vicenda terrena di Livatino”, ha detto Ermanno Di Bonaventura, “è stata una esperienza di vita, perché ti coinvolge e ti fa riscoprire quei valori che sono fondamentali per costruire delle comunità diverse rispetto a quelle nelle quali viviamo”. L’arcivescovo metropolita di Chieti – Vasto, Bruno Forte ha ricordato “di aver conosciuto Livatino, in un convegno nella diocesi di Agrigento” e ha poi citato alcune frasi del magistrato: “Diritto e fede, o se vogliamo giustizia e fede, sono in continuo rapporto tra loro. La fede è l’anima per l’esercizio di una giustizia che rispetti la dignità di ogni persona, la tutela e la promozione dei suoi diritti”.
La curatrice della mostra, Roberta Masotto, infine, ha sottolineato che Livatino “giudicava sempre il reato, non la persona. Il reato doveva essere giudicato perché la persona doveva essere educata a capire l’errore commesso, ma la persona non andava giudicata perché non era riconducibile solo all’errore, ma molto di più”. L’esposizione si avvale di numerosi patrocini tra cui Regione Abruzzo, l’Ufficio scolastico regionale, tutte le Province abruzzesi, i Comuni dei quattro capoluoghi e di Avezzano, la Ceam (Conferenza episcopale Abruzzo e Molise), l’Arcidiocesi di Chieti-Vasto, le diocesi di Teramo-Atri e di Avezzano, le fondazioni Tercas e PescarAbruzzo, l’università di Teramo, i tribunali di Avezzano, Chieti, Pescara, Teramo; il consiglio dell’Ordine degli avvocati di Teramo, il Forum del Terzo settore. In collaborazione con Caritas, Libera, l’Unione giuristi cattolici di Pescara e Teramo, l’Associazione genitori, Prossimità alle istituzioni, Cosma, premio Borsellino, Arci, Legalità cultura e territorio.
La mostra prevede un percorso diviso in quattro sezioni con testi, immagini, video e un audio che rievoca l’agguato e che introduce al percorso. Una parte importante è dedicata al testimone Piero Nava, direttore commerciale lombardo, che il 21 settembre 1990 si trovava in Sicilia per un viaggio di lavoro. Assistette, dallo specchietto retrovisore della sua auto, all’attentato che portò all’esecuzione del magistrato Livatino da parte dei mafiosi. Fu lui ad avvisare le forze dell’ordine e riferì quanto aveva visto. In un periodo in cui non esistevano disposizioni sui collaboratori di giustizia, Nava, cittadino onesto e testimone, non pentito, ha visto la propria esistenza stravolta. Ha perso il lavoro ed è ancora oggi costretto a nascondersi con tutta la sua famiglia, cambiando spesso città e generalità. “Quel giorno”, ha detto Nava, “Livatino è morto ma io sono scomparso”.