Forse un filo rosso potrebbe collegare la morte di Serena Mollicone, avvenuta nel giugno 2001, con quella di Samantha Fava, la 35enne scomparsa da Sora il 2 aprile 2012.
È quanto sostengono i difensori degli imputati assolti pochi giorni fa per l’omicidio di Serena, una possibilità che è stata prospettata anche in aula, nel corso del processo Mottola.
Dopo oltre un anno di indagini, il 19 giugno del 2013, il cadavere di Samantha Fava era stata rivenuto in una cantina di Fontechiari. La donna era stata picchiata, soffocata, impacchettata, stretta in un lenzuolo come una mummia, chiusa in due sacchi dell’immondizia e murata in una nicchia alta quaranta centimetri, costruita appositamente per lei con foratini e intonaco.
Il locale era in uso a un muratore di Sora, Tonino Cianfarani, condannato per questo delitto a 25 anni di carcere dalla Corte d’Assise di Cassino (condanna divenuta definitiva nel 2017, con la pronuncia della Corte di Cassazione). L’uomo è deceduto nel gennaio 2020.
Sembrerebbero sussistere analogie con il caso Mollicone, per quanto riguarda le modalità operative dell’omicida. Com’è noto, Serena è stata rinvenuta con la testa avvolta in un sacchetto di plastica, mani e piedi legati con scotch e fil di ferro, naso e bocca avvolti da diversi giri di nastro adesivo, un approccio – decisamente insolito e peculiare – che non può non richiamare alla mente quello adottato da Cianfarani (i criminal profiler, comparando tali tratti comportamentali caratteristici e ricorrenti degli assassini seriali, parlano in tal senso di “signature”, firma).
Lo stesso soggetto era, inoltre, solito dare passaggi alle autostoppiste della zona del frusinate e, da quanto emerso, Serena si muoveva spesso facendo l’autostop. Nella zona, in quegli anni, ha dunque operato un serial killer? Si imporrebbero le necessarie verifiche: in un articolo di ieri, Leggo auspica che gli investigatori effettuino una comparazione tra le impronte di Cianfarani e quelle che sembra siano state repertate sullo scotch di Serena.