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Franz Kafka: le prigioni di una mente superiore #LetteraturaLive

Roberta Di Pascasio di Roberta Di Pascasio
14 Settembre 2021
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“La mia paura è la mia essenza, e probabilmente la parte migliore di me stesso”. Così scrive Franz Kafka, nato nel 1883 a Praga in una famiglia di origini ebraiche, un ragazzo mingherlino e timido, oppresso da un padre severo e anaffettivo che non smetterà mai di incutergli timore e contro cui non potrà aiutarlo la debolezza della madre.

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Da lui costretto a seguire una strada professionale lontana dai libri e dalla scrittura, Kafka accetta passivamente un lavoro che trova noioso e snervante: l’assicuratore. Sono questi i due tormenti contro cui lotterà tutta la vita: la famiglia, un luogo fisico ed emotivo di castrazione, colpa e senso di inadeguatezza, e il lavoro burocratico, una “tirannia senza tiranno”, un sistema ripetitivo e sterile in cui gli uomini sono soltanto ingranaggi. Ma non abbandona la passione per la letteratura e frequenta un circolo di giovani autori cechi, tra i quali conosce Max Brod, che diventerà suo caro amico ed esecutore testamentario. L’unica possibilità di espressione, ma non di salvezza né di redenzione, è proprio la letteratura: la scrittura è la sua vocazione, ma al tempo stesso è un’attività che si scontra con la legge ebraica che prescrive al cittadino di fondare una famiglia, avere figli e vivere operosamente in mezzo alla comunità.

Per questo l’amore per i libri è vissuto come un doppio sacrilegio, un peccato di superbia, una colpa che schiaccia l’individuo che dovrebbe seguire uno stile di vita differente, secondo la legge borghese rappresentata dal padre e secondo la legge del Dio ebraico che sostiene la necessità sociale del nucleo familiare. Intrappolato nella morsa di una psiche tormentata, con una famiglia e un lavoro vissuti come prigioni, Kafka non riesce ad avere una vita sentimentale serena e risolta; a disagio con il proprio corpo e con un ideale di vita da cui cerca di fuggire, frequenta spesso bordelli e prostitute, provando però una vergogna che non lo abbandona. Eppure ha tentato di avere una relazione stabile che rispecchiasse le aspettative della famiglia e della società: in precedenza era stato fidanzato con due ragazze ebree molto più convenzionali, fidanzamenti convulsi e angosciati, mandati a monte soprattutto per le sue paure: “Sono spiritualmente inadatto al matrimonio” scrive in una lunga lettera al padre, “il matrimonio mi è precluso perché si tratta dell’ambito più propriamente tuo. A volte mi figuro una carta della terra e tu sopra sdraiato di traverso. E allora ho la sensazione di poter considerare per la mia vita solo regioni che tu non ricopri o che sono fuori dalla tua portata. E in conformità all’idea che mi sono fatto della tua grandezza, queste non sono molte e non sono molto confortanti, e il matrimonio non è fra loro.”

Nondimeno nel 1923, undici mesi prima di morire in un sanatorio di Vienna, Kafka trova la forza di lasciare Praga e la casa di suo padre. È la prima volta che succede. Nello stesso anno aveva ottenuto un pensionamento per ragioni di salute e aveva conosciuto Dora, una maestra ebrea neanche ventenne, la metà dei suoi anni. È stata Dora o è stata la malattia a indicare la nuova via? Si chiede Philip Roth. Forse l’una senza l’altra non avrebbe potuto essere. È come se la morte imminente spingesse Kafka a risolvere ogni contraddizione e incertezza, ma la richiesta viene negata dal padre della ragazza e Kafka accetta quel rifiuto, non si ribella, non lotta, con la sua solita assuefazione all’obbedienza e alla rinuncia. Eppure Dora gli rimarrà accanto, continuerà a prendersi cura dello scrittore malato con devozione e tenerezza. L’opera di Franz Kafka, scrive Alessandro Piperno, riesce a essere al contempo la più autobiografica e la meno autobiografica di tutte, perché i dilemmi dei suoi personaggi sono i suoi drammi personali, la materializzazione della sua lotta con la vita e con l’Altro, i suoi sensi di colpa, i suoi tormenti; ma sono anche i drammi dell’umanità, europea e novecentesca, e il termine “kafkiano” è diventato ormai di uso comune per definire quelle situazioni angosciose e indefinibili, grottesche e oniriche, in cui l’individuo può incorrere nella vita. Insomma quest’uomo timido e fragile, insicuro e tormentato, senza saperlo e contro la sua volontà (aveva chiesto all’amico Max Brod che alla sua morte venissero distrutti tutti i manoscritti) è uno dei più grandi autori del Novecento.

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