L’Aquila. Un tuffo nelle “note-letterarie” del violinista e poeta paganichese Andrea Petricca che, a novanta anni dalla scomparsa del ‘re del violino’ Eugène Ysaÿe, lo ricorda con profondo rispetto verso il patrimonio musicale che ci ha lasciato e che, in qualche modo, continua a vivere anche nella terra d’Abruzzo fra eventi che ne incentrano l’internazionalità della musica. “Uno sguardo pieno, definito, avvolgente, un virtuoso, un compositore, un didatta, un direttore d’orchestra, uno dei musicisti più grandi e unici della storia che, con la sua musica, conferisce pienezza all’animo dell’interprete e dell’ascoltatore, offrendogli un nutrimento raro e donandogli una passione naturale e fisiologica”. Andrea Petricca abbracciando la maestosità culturale con queste parole ha continuato con le sue personali analisi, “Basta guardare semplicemente le nitide foto del violinista belga per trarre il gusto e lo stile delle sue composizioni, un portamento stabile ed equilibrato, fonte di un’armonia limata al cesello e di tonalità che rispecchiano le tinte ricercate di un quadro di Joaquin Sorolla, capelli ondeggiati e giacca vellutata che diventano morbidezza e sinuosità musicale. Ma di Eugène si può cogliere questa sinuosità danzante anche in un rarissimo frammento di video in cui il violinista suona la sua ‘Ballade’, mostrando nell’esecuzione movimenti tecnici straordinariamente perfetti in ogni senso, dal punto di vista violinistico, visivo e concettuale. Questa armoniosa elasticità esecutiva e tecnica veicolata dalla mente, dal corpo e dalle mani, rende Eugène l’espressione più consapevole di una calda e versatile luce di bellezza. Ascoltarlo nelle rare incisioni sopravvissute ad un secolo di storia, commuove e completa in maniera sublime il complesso violinistico e umano del violinista belga. Le ‘sei sonate a violino solo’, naturali affluenti dell’eterno e universale fiume divino rappresentato dai ‘sei solo a violino’ di J.S. Bach, donano una virtuosa pienezza musicale elegante e consapevole, spesso velata, ma sapientemente icastica e ironica. Le sei sonate, dedicate a sei grandi violinisti del Novecento (Szigeti, Thibaud, Enescu, Kreisler, Crickboom e Quiroga), si interpolano in contesti vivi e idilliaci, trattandosi di un patrimonio violinistico immenso e innovativo che Ysaÿe razionalizzò in meticolose indicazioni tecniche ed interpretative. Eugène è come un cielo sereno, ma ricco di benefiche nuvole che lo rendono unico, artistico, sempre da interpretare. La musica di Ysaÿe è l’essenza di un bosco che filtra attraverso foglie e rami la calda luce estiva tra la freschezza del muschio e una serenità appassionata ed elegiaca. Lui può essere forse definito come una commistione tra l’estasi e un sogno d’infanzia, una gioia, un trasporto nel profondo del mondo sensibile che si unisce ad un’aura di malinconia nel ricordo di un giocoso passato fanciullesco, di una natura creatrice di vita, di bellezza e di felicità. Ed è di questa vita appassionata che Ysaÿe vuole reinventare un significato vero e lucente, armonico come nei vigorosi concerti per violino, che sono in tutto otto, un numero che fonde il quadrato (la terra, l’uomo, una danza carnale, rustica e profonda) e il cerchio (l’universo, Bach, l’Aurore, l’infinito). Forse è questa la ricerca artistica e umana che Ysaÿe ha compiuto con il suo violino in tempo giusto e con bravura, donando ispirazione e concreto benessere spirituale, un esilio interiore ma cosciente. Il suo temperamento è una poesia elegiaca o forse un’opera caratteristica, magari in lingua vallona, come fu il Piére li houyeû, ultimo atto in terra della musica di Ysaÿe. Un innovatore della tecnica violinistica che ha sempre umilmente guardato ai suoi contemporanei e ai giganti del passato, curandone la sua poliedricità e crescita artistica. Ebbene, Eugène Ysaÿe ancora oggi continua a donare verità e bellezza nelle tonalità e nelle armonie mutevoli del nostro tempo. Il violinista belga, con una dolce cavata filosofica, come quella ricercata nel suo Ysaÿe Quartet, suona eternamente sul suo Guarneri del Gesù del 1740, il suo preferito rispetto allo Stradivari Hercule del 1734, rievocando i silenzi di un’Aurore che già sorge come timida e bellissima Venere nella piena e rinnovata luce del giorno”.