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Insegnante a scuola fino a 71 anni per conseguire la pensione: l’ordinanza del tribunale di Sulmona

Francesca Trinchini di Francesca Trinchini
8 Aprile 2020
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Sulmona. A scuola fino a 71 anni se serve conseguire la pensione minima: questa l’ordinanza emessa dal tribunale di Sulmona.

Con l’ordinanza n. 202/2020 del 20.03.2020, emanata dal tribunale di Sulmona in funzione collegiale, i giudici Daniele Sodani (presidente relatore), Giuseppe Ferruccio e Annamaria De Sanctis, hanno accolto il reclamo presentato da un docente cui era stata rigettata dalla propria scuola l’istanza di permanenza in servizio fino all’età di 71 anni per conseguire il requisito della pensione minima. Il lavoratore si era ritrovato dal settembre 2019 senza stipendio e senza pensione e ulteriormente provato a causa della decisione cautelare sfavorevole del giudice del lavoro.

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Gli avvocati del docente, Salvatore Braghini e Renzo Lancia, del foro di Avezzano, non si arrendevano, però, dinanzi alla prima bocciatura del ricorso ex art. 700 cpc, con cui il giudice monocratico aveva condiviso l’operato dell’amministrazione che aveva collocato in quiescenza il docente in applicazione dell’art. 509 comma 3 D.Lgs 297/94, secondo cui “il personale, che, al compimento del 65° anno di età, non abbia raggiunto il numero di anni richiesto per ottenere il minimo della pensione, può essere trattenuto in servizio fino al conseguimento di tale anzianità minima e, comunque, non oltre il 70° anno di età”.

I legali, infatti, convinti delle ragioni del proprio assistito, proponevano reclamo argomentando la necessità della permanenza in servizio fino a 71 anni in ragione della certificazione del patronato, che aveva calcolato l’ammontare contributivo totale del ricorrente ravvisando l’insussistenza del diritto alla pensione minima, nonché della normativa di cui alla riforma pensionistica Monti-Fornero e alla legge 122/2010, che hanno previsto dal 1° gennaio 2013, il progressivo innalzamento dei requisiti per l’accesso alla pensione, spostando in avanti non soltanto il limite ordinamentale nel pubblico impiego (a 67 anni) ma anche l’età massima entro cui conseguire l’anzianità contributiva minima (passando da 70 a 71).

Secondo i tre giudici, sulla normativa di settore (testo unico della scuola), nel caso specifico, prevale la norma generale, in ragione del fatto che la legge 124/2011, con l’art. 24 comma 12, estende a tutti i requisiti anagrafici previsti per l’accesso al pensionamento gli adeguamenti alla speranza di vita.
Tra l’altro, osserva il collegio, nella fattispecie tale adeguamento trova conferma anche nella Circolare della funzione pubblica 2/2015, a mente della quale se “considerando tutti i periodi contributivi, il dipendente non raggiungerà il minimo di anzianità contributiva entro il raggiungimento dell’età anagrafica per la pensione di vecchiaia prevista dall’articolo 24, comma 6, del predetto decreto-legge n. 201 del 2011, l’amministrazione dovrà valutare se la prosecuzione del rapporto di lavoro fino al compimento dei 70 anni di età (oltre all’adeguamento alla speranza di vita) consentirebbe il conseguimento del requisito contributivo. In caso affermativo, l’amministrazione dovrà proseguire il rapporto di lavoro al fine di raggiungere l’anzianità contributiva minima. In caso contrario, l’amministrazione dovrà risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro”.

Ora, l’istituzione scolastica di titolarità è tenuta a ripristinare, senza soluzione di continuità, il rapporto di lavoro con il docente, consentendo allo stesso, sin da subito, la riassunzione in servizio, nei limiti e delle forme di cui ai decreti legge e circolari attuative del ministero dell’istruzione in riferimento all’emergenza sanitaria in corso.

L’avvocato Salvatore Braghini, della CISL Scuola, evidenzia “la portata giuridica del provvedimento in parola per l’applicazione di una normativa generale che viene fatta prevalere su quella di settore (che, essendo speciale, è superiore rispetto alla prima), in quanto la norma che segna il limite di 70 anni, ancorché speciale, deve essere considerata recessiva rispetto ad una norma valevole per tutti i dipendenti pubblici, che, nel caso specifico, consente di garantire il diritto costituzionalmente protetto alla pensione e di non incorrere, altresì, in una discriminazione per età, censurata dalla normativa anche europea” conclude.

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