Quel 6 Aprile me lo porterò per sempre dentro, come chiunque abbia avuto la sfortuna di sentire il boato assassino di quei 23 terribili e lunghissimi secondi. 309 vittime: questo è stato il tragico bilancio di quella notte di polvere e macerie. Ora lo sappiamo, ma nelle ore successive al sisma nessuno sapeva a che cifra si sarebbe assestato quel drammatico conto alla rovescia con la vita. Nessuno, al buio delle 3.32, poteva immaginare i danni che erano stati inflitti in pochi secondi a una delle città più belle del mondo. Ma una cosa si è capita sin da subito, la macchina della solidarietà non si è mai messa in moto così velocemente.
Nelle ore successive al terremoto mi recai all’Aquila percorrendo la vecchia statale, che aveva il manto stradale disseminato di enormi pietre, come se durante la notte fossero piovuti meteoriti. I parenti erano fuggiti durante la notte, in pigiama, e il giorno dopo li ho riaccompagnati lì, nel ventre della bestia, per portare via i beni di prima necessità. Ricordo perfettamente quel momento, come se fosse ora: case distrutte, strade bloccate, mentre dolore e disperazione si imprimevano, per sempre, negli occhi degli aquilani.
In fretta e furia recuperammo solo lo stretto necessario, come un soldato che sul campo di battaglia recupera i suoi compagni feriti e lascia sul posto quelli morti. Eppure, tra la disperazione e il dolore, mi commossi per l’enorme solidarietà umana, che prepotentemente si apprestava ad entrare in scena. Ciò che mi colpì fu vedere un gran movimento di elicotteri, a poche ore dal sisma, che perlustravano le zone del terremoto. In alcuni punti spuntavano già, come funghi, le prime tendopoli attrezzate. Più avanti, mentre cercavamo di tornare verso la Marsica, incontrammo una colonna infinita di ogni genere di mezzi, da quelli di primo e pronto soccorso della protezione civile ai vigili del fuoco, dalle forze dell’ordine alle ambulanze della croce rossa e di altre associazioni. Una moltitudine di volontari si precipitavano verso il centro ferito della città, ansiosi di dare il proprio contributo, come globuli bianchi che cercano di sanare un’infezione che potrebbe rivelarsi mortale.
Tornai all’Aquila qualche settimana più tardi, quando le emergenze più gravi erano ormai sotto controllo e mi emozionai nel sentire, nel cuore della città, una affascinante babele di solidarietà. Alpini con l’accento altoatesino aiutavano uomini della protezione civile che parlavano siciliano a mettere in sicurezza una casa pericolante. Blasoni delle diverse compagnie dei vigili del fuoco, provenienti da ogni parte d’Italia, campeggiavano sui pali di legno che imbragavano e puntellavano le antiche mura della città. Ciò che stavano facendo quegli uomini, che da settimane ormai vivevano nelle tendopoli dell’Aquila, era qualcosa di eroico, al pari di chi, ferito dal terremoto, stava trovando la forza di rialzarsi e di andare avanti.
Oggi, a dieci anni da quella terribile notte, la strada da fare è ancora molta. Tanti edifici sono ancora sorretti da quei pali di legno, ormai logorati dalla rigidità degli inverni aquilani, al pari dei nervi degli abitanti della città che ancora oggi, nel bel mezzo della notte, si svegliano per ogni minimo rumore. Ma fortunatamente tanti degli edifici più importanti e rappresentativi della città hanno già riaperto, così come anche il centro storico, che seppure tra mille difficoltà, sta tornando più splendido e magnifico che mai. L’Aquila, come aveva già fatto in passato, si sta scrollando di dosso le piume da fenice che era stata costretta a vestire e, giorno dopo giorno, sta tornando a volare, alta e maestosa, come merita da sempre.