Montenerodomo. “Dopo quattro ore di cammino e prima dell’attraversamento del torrente Vallone Cupo, in contrada Selvoni di Montenerodomo, facemmo sosta vicino ad una casupola per stabilire sul terreno le modalità dell’attacco. Era dalla partenza da Fallascoso che non fumavo, per questo con un calcio aprii la porta della stalla e accesi un cerino. Mi si presentò uno spettacolo allucinante, che istintivamente mi fece richiudere la porta sgangherata. Riapertala, poco dopo, riaccesi un cerino e mi trovai davanti una donna vestita con una camicia da notte tutta insanguinata e con tre bambini nelle stesse condizioni a lei abbracciati, distesi come se dormienti, su un materasso matrimoniale che occupava la piccola stalla. Niente potei fare in concreto per poterli aiutare. Richiusi con delicatezza la portoncina sgangherata e mi segnai con il segno della croce. Mantenni il segreto con tutti gli uomini per opportunità militare. La pattuglia terminò la missione con uno scontro a fuoco furibondo con i tedeschi e rientrò a Fallascoso all’alba senza perdite”. Così il Vice Comandante del Gruppo Patrioti della Maiella, Domenico Troilo, ha raccontato l’eccidio del Vallone Cupo, avvenuto il 24 marzo 1944 sulla Linea Gustav nel paese abruzzese di Montenerodomo (Chieti). In quello stesso giorno, ad oltre 200 km di distanza, si consumava a Roma l’eccidio delle 335 vittime delle Fosse Ardeatine.
A Montenerodomo ad essere falciate dalla ferocia nazista furono la 38enne Domenica Di Lullo, che aveva in grembo il settimo figlio, ucciso ancor prima di nascere, e i suoi tre figlioletti più piccoli: Rosa di 9 anni, Rocco di 6 e Anna Emilia che ne aveva compiuti 3 solo 12 giorni prima di essere trucidata. Domenica era sposata con Giuseppe Di Rocco, che aveva portato via i tre figli maggiori: Maria, Antonietta e Vincenzo. Lei, essendo incinta all’ottavo mese di gravidanza, non si poteva muovere ed era rimasta ad aspettare con i più piccini nella masseria di Francesco D’Antonio in contrada Selvoni, dove si erano rifugiati lasciando il paese, assistita dalla famiglia di Giovanni D’Antonio. Il marito Giuseppe, con un viaggio periglioso, era riuscito a mettere in salvo i figli maggiori arrivando a Pennadomo. Non fece in tempo a tornare indietro. Dal 23 marzo 1944, proseguendo la ritirata dagli avamposti della Linea Gustav in quella che ormai si era trasformata in una “terra di nessuno” contesa dai Patrioti della Maiella e dalle avanguardie inglesi, i nazisti attuarono dei rastrellamenti in contrada Selvoni di Montenerodomo. Furono azioni particolarmente violente, mirate sia alla requisizione di viveri necessari per le truppe che all’astio vendicativo cresciuto dopo un episodio avvenuto in febbraio quando, durante il trasferimento di tre abitanti di Montenerodomo che erano stati fermati, questi si erano rivoltati ai due soldati di scorta, ne avevano ucciso uno e si erano dati alla fuga proprio in quei luoghi. Così nella giornata del 24 marzo 1944 la furia nazista sul Vallone Cupo non risparmiò nessuno. Chi era in grado di camminare fu costretto a portare i viveri sino alla postazione-osservatorio nazista di Colle Papaccio, poi fucilato e sepolto sul posto. Chi non poteva muoversi, come i più anziani e la madre incinta, fu ucciso subito nei casolari. Alla fine si contarono 10 vittime.
Ma già il 2 febbraio 1944 i nazisti – dopo la battaglia che li aveva convinti ad abbandonare Pizzoferrato – si erano resi protagonisti di un’altra strage a Montenerodomo, seguita ad un rastrellamento nelle contrade Casale e Verlinghiera: tutti coloro che opposero resistenza o tentarono la fuga furono fucilati sul posto, mentre le donne e i bambini furono portati in paese, in una casa semidiroccata di Rione San Martino, dove furono trucidati. Alla fine di quella giornata, rimasta nella memoria popolare come la “strage della Candelora”, le vittime furono 12 (cinque delle quali bambini tra i 7 e i 13 anni). Altre uccisioni di civili inermi erano poi avvenute il 6 febbraio (4 vittime) e il 9 febbraio (altre 3 vittime). Nel dopoguerra sia il procedimento per la “strage della Candelora” che quello per l’eccidio di Vallone Cupo – intentati nei confronti di “ignoti ufficiali delle SS germaniche” per “violenza con omicidio in danno di civili italiani” – sono stati entrambi archiviati per “prescrizione del reato” e su richiesta del Pm dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale Militare di Roma. In compenso il ministero della Difesa, con Decreto del Presidente della Repubblica del 26 giugno 1975, ha conferito al Comune di Montenerodomo la Croce al valor militare con la seguente motivazione: “Durante sette mesi di occupazione nazifascista, sostenne coraggiosamente le forze partigiane subendo, per la sua attività patriottica, enormi sacrifici culminati nella distruzione dell’intero abitato. Reagendo con fierezza alla barbara tracotanza dell’oppressore offrì un valido contributo di sangue generoso, di combattenti, di sacrifici e di valore alla causa della libertà della patria”.
In occasione del 78° anniversario dell’eccidio di Vallone Cupo i ricercatori Domenico D’Orazio e Lorenzo Grassi, che in questi anni hanno lavorato per un recupero della memoria storica in stretto legame con il territorio, hanno proposto alle Amministrazioni comunali di Montenerodomo e Lettopalena, oltre che al Parco Nazionale della Maiella, di riaprire come “Sentiero della Memoria” l’antica mulattiera che collegava contrada Selvoni, attraverso Colle Papaccio e Fonte della Noce, con Palena. Era il percorso utilizzato dalle truppe naziste nei loro spostamenti, lungo il quale furono compiuti gli eccidi di febbraio e marzo del 1944 e dove i fucilati trovarono impietosa sepoltura dentro alcune buche improvvisate che ancora oggi sono visibili sul terreno. Quando i 13 corpi sepolti nel “cimitero” di Colle Papaccio furono recuperati a giugno del 1944, i resti erano stati intaccati anche dagli animali selvatici e solo i vestiti ne resero possibile il penoso riconoscimento. Su Colle Papaccio D’Orazio e Grassi propongono ora di posizionare una stele con i nomi delle persone che lì furono trucidate e, più in generale, in ricordo di tutte le vittime civili dei nazisti sulla Linea Gustav. Sarebbe infine auspicabile anche un recupero della masseria che il 24 marzo 1944 vide il martirio di mamma Domenica, dei suoi tre piccolissimi figli e di quello che ancora doveva vedere la luce. Il casolare, che ora cade in rovina, andrebbe essere acquisito al patrimonio pubblico e trasformato in un Sacrario come monito per non dimenticare mai l’orrore della guerra.